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martedì 27 febbraio 2024
Intervento di S.E. Mons. Carlo Maria Viganò Arcivescovo, al Secondo Congresso del Movimento Russofilo Internazionale e del Forum sulla Multipolarità - Mosca, 26 Febbraio 2024
Eccellenze, illustri Signore e Signori, cari amici,
Questa è la seconda occasione in cui ho l'onore di parlare al Congresso Internazionale dei Russofili. Ringrazio tutti voi e gli organizzatori di questo evento per avermi invitato a questa riflessione, che segue di qualche settimana la storica intervista che il presidente Vladimir Vladimirovič Putin ha concesso al giornalista americano Tucker Carlson. La reazione dei media mainstream occidentali mostra quanto sia spaventosa la verità, in un mondo che vive di bugie e si basa sulla falsità.
Tutti voi qui riuniti siete ben consapevoli della minaccia che incombe sul mondo occidentale e sull’intera umanità. In primo luogo, la minaccia di una terza guerra mondiale, sotto le cui macerie saranno sepolti decenni di crimini e frodi commessi da un’élite sempre più potente e tirannica. In secondo luogo, la minaccia dello sterminio di una parte dell’umanità attraverso l’Agenda 2030. In terzo luogo, la minaccia reale e terribile dell’instaurazione di un governo mondiale totalitario, in cui i popoli sopravvissuti saranno ridotti in schiavitù. La progressiva eliminazione delle sovranità nazionali e il loro assorbimento in organismi sovranazionali ha, come scopo dichiarato, l’instaurazione del Nuovo Ordine Mondiale. I vertici del World Economic Forum, con tutte le sue ramificazioni ufficiali e ufficiose, non nascondono di aver occupato i vertici delle istituzioni attraverso governi fantoccio e con la pedissequa collaborazione dei media di regime.
I popoli dell’Occidente hanno ormai capito che sono governati dai servi dell’élite globalista e che il cosiddetto “sistema democratico” è una finzione grottesca, a cominciare dalla manipolazione delle elezioni. Le continue emergenze – sanità, guerra, clima ed energia – le crisi che presumibilmente giustificano l’Agenda 2030, tuttavia, non sono ciò che li unisce veramente, e molti stanno cominciando a rendersene conto. Ciò che realmente motiva queste persone è la loro appartenenza ad una setta satanica. Ma chi vuole che Satana regni deve prima bandire Dio, con il pretesto della laicità dello Stato: Regnare Christum nolumus. Non vogliamo che Cristo regni. Il mondo occidentale è stato ridotto a una fogna, a un mattatoio, a un enorme campo di battaglia, in cui l’élite controlla le masse, le impoverisce, le sfrutta, le umilia, le schiavizza e le manda al macello.
Avendo escluso Dio dalla vita pubblica, l’autorità non deve più obbedire ad alcun principio trascendente, e può quindi trasformarsi – come sta cambiando – in una dittatura. Il suo potere diventa illimitato e lo Stato – privatizzato e nelle mani di criminali sovversivi – prende il posto di Dio. Possiamo credere che gli autori di questo colpo di stato siano rassegnati a cedere il potere, proprio quando l’instaurazione di questo Nuovo Ordine è proprio dietro l’angolo? In un momento in cui le élite sono riuscite a imporre la cancellazione sistematica dei diritti fondamentali – salute, proprietà, libertà d’impresa, libertà di parola e di istruzione, libertà di movimento e di viaggio – a un’umanità terrorizzata dalle continue emergenze create, dalla prospettiva di catastrofi inventate, sotto la minaccia di guerre e invasioni?
Siamo tutti consapevoli che è in atto un risveglio dei popoli. Lo dimostrano le manifestazioni di contadini e allevatori che si stanno diffondendo a macchia d’olio, e quelle dei cittadini di tante nazioni, esasperate dalla sostituzione etnica – con tutte le conseguenze che conosciamo in termini di sicurezza, criminalità e convivenza – imposta da pazzi immigratisti politiche colpevolmente sostenute da sedicenti organizzazioni umanitarie. Ma questo risveglio – se non trova una risposta seria e responsabile nell’ambito del diritto – porterà inevitabilmente alla guerra civile, dando il pretesto ai governi servitori del World Economic Forum per intervenire militarmente.
Solo due settimane fa, l’Assemblea nazionale francese ha approvato una legge sulle “derive settarie” che prevede pesanti multe e reclusione per chi esprime dissenso. La censura da parte dello Stato o degli organismi sovranazionali è già in atto e aumenterà in modo esponenziale, così come il controllo sulle masse. Gli scandali di frode elettorale nelle elezioni presidenziali americane del 2020; prova di un piano criminale di sterminio e sterilizzazione di massa attraverso l'imposizione di una terapia genica sperimentale presentata come vaccinazione di massa; la volontà di forzare il passaggio alla valuta digitale per controllare come possiamo o non possiamo spendere i nostri soldi: questi sono tutti segnali allarmanti, a cui si aggiunge la minaccia di una guerra nucleare. L’élite è disposta a fare qualsiasi cosa per mantenere il potere e nascondere i propri crimini.
In cosa può consistere allora un'azione di resistenza e di opposizione, tale da coinvolgere questa crescente ondata di dissenso, evitando che venga strumentalizzata o dispersa? Vorrei qui presentare la mia visione, che spero possa essere occasione di confronto.
La Rivoluzione ha fallito, così come l’ideologia laicista e anticristiana dell’Occidente postrivoluzionario, liberale e massonico ha dimostrato di aver fallito. La Russia ha vissuto questo crollo davanti a noi, riprendendo possesso della sua Fede, delle sue tradizioni e della sua cultura, che il totalitarismo aveva combattuto e cercato di cancellare, proprio come la dittatura sveglia lotta e cerca di cancellare la nostra identità, la nostra Fede, la nostra civiltà cristiana e anche i principi sacri e universali della Legge Naturale. Siamo tutti d’accordo sul fatto che il danno causato da una società che rifiuta di riconoscere Dio è davanti ai nostri occhi. Dobbiamo quindi avere non solo l'umiltà, non solo il coraggio, ma anche e soprattutto l'orgoglio di professare la nostra Fede, di volere non solo i singoli individui, ma anche lo Stato che riconosca e onori Nostro Signore Gesù Cristo come Dio, Signore e Re, e conformare a Lui le sue leggi.
Nel 1874 il grande statista Gabriel García Moreno consacrò la Repubblica dell'Ecuador a Nostro Signore, prima di essere ucciso dai sicari della Massoneria. Il suo motto era: Libertà per tutto e tutti, tranne che per il male e i malfattori. Come possiamo non essere d'accordo? Dobbiamo riconoscere la signoria di Dio e arrenderci alla Sua legge, affidare a Lui la nostra patria e la nostra nazione, noi stessi e le nostre famiglie. E chi, tra coloro che portano il nome cristiano, non sarebbe d'accordo con queste parole? Non saremmo rispettati anche da chi professa un’altra religione, avendo riscoperto il fondamento comune di principi condivisi come il rispetto della vita, della famiglia naturale, il rispetto dei deboli e degli anziani?
Penso che questo possa costituire davvero il vero “grande reset” che tutti aspettiamo, un ritorno al Signore di tutti noi, delle nostre famiglie, delle nostre comunità, delle pubbliche amministrazioni. Dovremmo essere ancora una volta orgogliosi di poterci professare cristiani. Dobbiamo tornare a chiamare bene il bene e male il male; non sentirsi inferiori di fronte all'arroganza del vizio, al cinismo della corruzione; di non lasciarsi intimidire dall’apparente irreversibilità del male. Dobbiamo restituire ai popoli dell'Occidente la speranza che è stata loro strappata per sottometterli. Dobbiamo desecolarizzare la società e riportarla nel flusso di quell'ordine divino che è fondato in Cristo, Dio-Uomo, unico Salvatore del genere umano, che solo in Cristo può trovare pace. La pace di Cristo – che è la vera pace perché fondata sulla verità e sulla giustizia – può essere raggiunta solo dove Cristo regna: Pax Christi in regno Christi.
Qual è l’unica cosa che la chimera globalista non può offrirci, per la quale non ha alcun sostituto da offrire? L'eroismo di un ideale, la nobiltà di un obiettivo per cui vale la pena lottare e perfino morire. E questo ideale non può consistere che nella fede in Cristo Signore, nell'amore per Lui e per il prossimo, nel desiderio di donare alla nostra Patria e ai nostri figli un futuro in cui gli orrori del globalismo siano un brutto ricordo. I criminali sovversivi di Davos non hanno ideali da offrire, perché basano il loro successo sulla paura e perché ottengono l'obbedienza dei loro servi attraverso la corruzione e il ricatto. Dobbiamo contrapporre all'ideologia di morte del Nuovo Ordine Mondiale il Vangelo di Gesù Cristo, Colui che si autodefiniva Via, Verità e Vita.
Se affrontiamo il nemico comune sul campo dove è più forte, siamo destinati a soccombere. Se spostiamo la battaglia là dove egli è debole, possiamo vincerla, con l'aiuto di Dio. Troppo spesso dimentichiamo che Dio è veramente onnipotente e che i suoi nemici e i nostri non possono fare nulla contro di Lui. Aspetta che l'umanità ritorni a Lui e si lasci salvare quando tutto sembra perduto.
Questa è l’unica via d’uscita possibile dall’attuale distopia, perché qualunque cosa accada – sia che gli autori del colpo di stato vengano sconfitti o mantengano con la forza il loro potere tirannico – la consapevolezza della battaglia spirituale in corso orienterà e darà un impulso soprannaturale alla nostra opposizione, rendilo meritorio e non potrà non presentarsi davanti alla divina Maestà. Domine salva nos, perimus! Κύριε, σῶσον, ἀπολλύμεθα. Господи! спаси нас, погибаем (Mt 8,25). Nella tempesta impetuosa, il Signore sembra addormentato, in attesa che lo invochiamo e lo riconosciamo capace di calmare le onde e calmare i venti.
Ricostruiamo gli Stati sulla roccia, sulla pietra angolare che è Cristo Signore. Restituiamo a Gesù Cristo la corona che la Rivoluzione gli ha strappato. Scuotiamoci dal giogo infernale del globalismo, dall'adesione ad organismi sovranazionali volti a cancellare la nostra Fede, la nostra identità, la nostra civiltà. Riteniamo responsabili i criminali sovversivi, a cominciare dal provocare un sanguinoso conflitto che ha sterminato un’intera generazione in Ucraina, usandolo per attaccare la Russia, per svenderla alle multinazionali e per far crollare economicamente l’Europa.
Ci confrontiamo con le élite non tanto sfidando le bugie delle crisi e delle emergenze, ma piuttosto opponendo alla loro visione della morte la speranza – una speranza basata su Cristo e sul fare la Sua volontà. Facciamo la volontà di Dio, unica risposta possibile della creatura al Creatore, e unica premessa per vincere questo scontro epocale con Lui. Ce lo ha ricordato anche Tucker Carlson, in una recente intervista a Dubai, quando ha sottolineato i due schieramenti contrapposti, formati da coloro che riconoscono e servono Dio e da coloro che vogliono farsi dio invece di Dio e contro di Lui, coloro che servire la vita e coloro che promuovono la morte, coloro che seguono la Verità e coloro che sono servitori della menzogna e della frode.
I popoli hanno sete di Bene, sono stufi di falsità e inganni, di perversioni e di violenza. Vinciamo il male con il bene, la menzogna con la verità, la superbia con l'umiltà, la corruzione con l'onestà, l'egoismo con la carità generosa. Portiamo nelle tenebre la Luce, la luce vera, che illumina ogni uomo (Gv 1,9), affinché le tenebre in cui si nascondono questi criminali sovversivi possano essere squarciate e appaia l'orrore dei loro crimini atroci e con loro la loro condanna. Vi lascio la pace, vi do la mia pace: non come la dà il mondo, io ve la do (Gv 14,27).
A conclusione di questa riflessione, vorrei lanciare un appello a tutti gli uomini di buona volontà, affinché le nazioni si consacrano al Sacro Cuore di Gesù e al Cuore Immacolato di Maria, Madre di Dio, come premessa per implorando dal Cielo quella pace che solo il nostro Re e Signore può dare, e che mai come in questo momento è stata invocata dal genere umano su questo mondo tenuto in ostaggio dalle forze infernali. Rivolgo questo appello al Patriarca di Mosca, ai Prelati della Chiesa Ortodossa, ai Cardinali e ai Vescovi cattolici che non hanno ceduto al compromesso, e a tutti coloro che si riconoscono nei principi universali e sacri della Legge naturale.
Su tutti voi, e su tutti coloro che condividono la nostra battaglia spirituale, imploro abbondanti benedizioni celesti attraverso l'intercessione della gloriosa Theotokos, la Vergine Madre di Dio.
+ Carlo Maria Viganò, Arcivescovo,
già Nunzio Apostolico negli Stati Uniti d'America
sabato 24 febbraio 2024
MISTICA DELLA QUARESIMA
Non ci si deve meravigliare se un tempo così sacro come quello della Quaresima sia così pieno di misteri. La Chiesa, che la considera come la preparazione alla più gloriosa delle sue feste, ha voluto che questo periodo di raccoglimento e di penitenza fosse caratterizzato dalle circostanze più idonee a risvegliare la fede dei cristiani ed a sostenere la loro costanza nell'opera dell'espiazione annuale.
Nel Tempo della Settuagesima riscontrammo il numero settuagenario, che ci richiama i settant'anni della cattività in Babilonia, dopo i quali il popolo di Dio, purificato dalla sua idolatria, doveva rivedere Gerusalemme e celebrarvi la Pasqua. Ora è il numero quaranta che la santa Chiesa presenta alla nostra religiosa attenzione, il numero che, al dire di san Girolamo, è sempre quello della pena e dell'afflizione (Comm. d'Ezechiele, c. 20).
Il numero 40 e il suo significato.
Ricordiamo la pioggia dei quaranta giorni e delle quaranta notti, causata dai tesori della collera di Dio, quando si pentì d'aver creato l'uomo (Gen 7,12) e sommerse nei flutti il genere umano, ad eccezione d'una sola famiglia. Pensiamo al popolo ebreo che errò quaranta anni nel deserto, in punizione della sua ingratitudine, prima di poter entrare nella terra promessa (Num 14,33). Ascoltiamo il Signore, che ordina al profeta Ezechiele (4,6) di starsene coricato quaranta giorni sul suo lato destro, per indicare la durata d'un regno al quale doveva seguire la rovina di Gerusalemme.
Due uomini, nell'Antico Testamento, hanno la missione di raffigurare nella propria persona le due manifestazioni di Dio: Mosè, che rappresenta la legge, ed Elia, nel quale è simboleggiata la profezia. L'uno e l'altro s'avvicinano a Dio; il primo sul Sinai (Es 24,18), il secondo sull'Oreb (3Re 19,8); ma sia l'uno che l'altro non possono accostarsi alla divinità, se non dopo essersi purificati con l'espiazione di un digiuno di quaranta giorni.
Rifacendoci a questi grandi avvenimenti, riusciremo a capire perché mai il Figlio di Dio incarnato per la salvezza degli uomini, avendo deciso di sottoporre la sua divina carne ai rigori del digiuno, volle scegliere il numero di quaranta giorni per quest'atto solenne. L'istituzione della Quaresima ci apparirà allora in tutta la sua maestosa severità, e quale mezzo efficace per placare la collera di Dio e purificare le nostre anime. Eleviamo dunque i nostri pensieri al di sopra dello stretto orizzonte che ci circonda, e vedremo lo spettacolo di tutte le nazioni cristiane del mondo, offrire in questi giorni al Signore sdegnato quest'immenso quadragenario dell'espiazione; e nutriamo la speranza che, come al tempo di Giona, egli si degnerà anche quest'anno fare misericordia al suo popolo.
L'esercito di Dio.
Dopo queste considerazioni relative alla durata del tempo che dobbiamo passare, apprendiamo ora dalla Chiesa sotto quale simbolo essa considera i suoi figli durante la santa Quarantena. La Chiesa vede in essi un immenso esercito, che combatte giorno e note contro il nemico di Dio. Per questa ragione il Mercoledì della Ceneri essa ha chiamato la Quaresima la carriera della milizia cristiana. Per ottenere infatti quella rigenerazione che ci farà degni di ritrovare le sante allegrezze dell'Alleluia, noi dobbiamo aver trionfato dei nostri tre nemici: il demonio, la carne e il mondo. Insieme al Redentore che lotta sulla montagna contro la triplice tentazione e lo stesso Satana, dobbiamo essere armati e vegliare senza stancarci. Per sostenerci con la speranza della vittoria ed animarci a confidare nel divino soccorso, la Chiesa ci presenta il Salmo 90, che colloca fra le preghiere della Messa nella prima Domenica di Quaresima, e del quale attinge quotidianamente molti versetti per le diverse Ore dell'Ufficio. Con la meditazione di quel salmo vuole che contiamo sulla protezione che Dio stende sopra di noi come uno scudo; che attendiamo all'ombra delle sue ali; che abbiamo fiducia in lui, perché egli ci strapperà dal laccio del cacciatore infernale, che ci aveva rapita la santa libertà dei figli di Dio; che siamo assicurati del soccorso dei santi Angeli, nostri fratelli, ai quali il Signore ha dato ordine di custodirci in tutte le nostre vie, e che, testimoni riverenti della lotta sostenuta dal Salvatore contro Satana, s'avvicinarono a lui dopo la vittoria per servirlo e rendere i loro omaggi. Entriamo nei sentimenti che la santa Chiesa ci vuole ispirare, e durante questi giorni che dovremo lottare ricorriamo spesso al bel canto che essa ci indica come l'espressione più completa dei sentimenti che devono animare, in questa santa campagna, i soldati della milizia cristiana.
La pedagogia della Chiesa.
Ma la Chiesa non si limita a darci una semplice parola d'ordine contro le sorprese del nemico; per occupare tutta la nostra mente ci mette davanti tre grandi spettacoli, che si svolgeranno giorno per giorno fino alla festa di Pasqua, e ciascuno dei quali ci procurerà delle pie emozioni insieme alla più solida istruzione.
Gesù Cristo perseguitato e mandato a morte.
Prima assisteremo alla fine della congiura dei Giudei contro il Redentore: congiura che si inizia ora per esplodere il Venerdì Santo, quando vedremo il Figlio di Dio inchiodato sull'albero della Croce. Le passioni che si agitano in seno alla Sinagoga si manifesteranno di settimana in settimana, e noi le potremo seguire in tutto il loro svolgersi. La dignità, la pazienza e la mansuetudine dell'augusta vittima ci appariranno sempre più sublimi e più degne di un Dio. Il dramma divino che vedremo aprirsi nella grotta di Betlem continuerà fino al Calvario; e per seguirlo, non abbiamo che da meditare le letture del Vangelo che la Chiesa ci presenterà giorno per giorno.
La preparazione al Battesimo.
In secondo luogo, ricordandoci che la festa di Pasqua è per i Catecumeni il giorno della nuova nascita, riandremo col pensiero a quei primi secoli del Cristianesimo, quando la Quaresima era l'ultima preparazione dei candidati al Battesimo. La sacra Liturgia ha conservata la traccia di quell'antica disciplina, di modo che, mentre ascolteremo le splendide letture dei due Testamenti, con le quali terminava l'ultima iniziazione, ringrazieremo Dio, che si degnò di farci nascere in tempi, nei quali il bambino non deve più attendere l'età dell'uomo per esperimentare le divine misericordie. Penseremo pure a quei nuovi Catecumeni che, anche ai nostri giorni, nei paesi evangelizzati dai nostri moderni apostoli, aspettano, come nei tempi antichi, la grande solennità del Salvatore che vince la morte, per discendere nella sacra piscina ed attingervi un nuovo essere.
La pubblica penitenza.
Finalmente durante la Quaresima dobbiamo richiamare alla memoria quei pubblici Penitenti che, espulsi solennemente dall'assemblea dei fedeli il Mercoledì delle Ceneri, formavano in tutto il corso della santa Quarantena un oggetto di materna preoccupazione per la Chiesa, che doveva ammetterli, se lo meritavano, alla riconciliazione, il Giovedì Santo. Una serie ammirabile di letture destinata alla loro istruzione e ad interessare i fedeli a loro favore, scorrerà sotto i nostri occhi; poiché la Liturgia non ha perduto niente di quelle solide tradizioni. Ci ricorderemo allora con quale facilità sono state a noi perdonate le iniquità, che forse nei secoli passati non ci sarebbero state rimesse, se non dopo dure e solenni espiazioni; e, pensando alla giustizia del Signore, che non muta mai, qualunque siano i cambiamenti che l'accondiscendenza della Chiesa introdusse nella sacra disciplina, ci sentiremo tanto più portati ad offrire a Dio il sacrificio d'un cuore veramente contrito e ad animare con un sincero spirito di penitenza le piccole soddisfazioni che presenteremo alla sua divina Maestà.
Riti e Usanze liturgiche.
Per conservare al sacro tempo della Quaresima il carattere di austerità che gli conviene la Chiesa, per moltissimi secoli, si mostrò molto riservata nell'ammettere feste in questo periodo dell'anno, perché esse recano sempre con sé dei motivi di gioia. Nel IV secolo, il Concilio di Laodicea già mostrava tale disposizione nel suo 51.o Canone, là dove permetteva di celebrare la festa dei santi solo i sabati e le domeniche. La Chiesa greca si mantiene in questo rigore, e solo parecchi secoli dopo il Concilio di Laodicea permise, per il 25 marzo, la festa dell'Annunciazione.
La Chiesa Romana conservò per lungo tempo questa disciplina, almeno all'inizio; però ammise molto presto la festa dell'Annunciazione, ed in seguito quella dell'Apostolo san Mattia, il 24 febbraio e in questi ultimi secoli aprì il suo calendario a diverse altre feste nella parte corrispondente alla Quaresima, ma sempre però con limitata misura, per rispettare lo spirito dell'antichità.
La ragione per cui la Chiesa Romana ammise più facilmente le feste dei Santi nella Quaresima è che gli Occidentali non ritengono la celebrazione delle feste incompatibile col digiuno; mentre i Greci sono persuasi del contrario, tanto che il sabato, considerato sempre dagli Orientali un giorno solenne, non è mai per loro, giorno di digiuno, a meno che sia Sabato Santo. Per lo stesso motivo essi non digiunano il giorno dell'Annunciazione, per riguardo alla solennità di tale festa.
Questo modo di pensare degli Orientali diede origine, verso il VII secolo, ad un'istituzione ch'è loro particolare, chiamata da essi la Messa dei Presantificati, cioè delle cose consacrate in un sacrificio precedente. Ogni domenica di Quaresima il celebrante consacra sei ostie, di cui una la consuma nel Sacrificio, le altre cinque sono riservate per una semplice comunione da farsi in ciascuno dei cinque giorni seguenti, senza Sacrificio. La Chiesa latina pratica questo rito una sola volta l'anno, il Venerdì Santo, e per una ragione profonda che spiegheremo a suo tempo.
Il principio di tale usanza presso i Greci è scaturito evidentemente dal 49.o Canone del Concilio di Laodicea, che prescrive di non offrire il pane del sacrificio in Quaresima, se non il sabato e la domenica. Nei secoli seguenti i Greci conclusero da questo canone che la celebrazione del Sacrificio non si poteva conciliare col digiuno; e da una loro controversia avuta nell'XI secolo col legato Umberto (Contro Niceta, t. iv), sappiamo, che la Messa dei Presantificati, che ha in suo favore un canone del famosissimo concilio chiamato in Trullo, tenuto nel 692, era giustificata dai Greci da ciò che in quel Canone si affermava e cioè che la comunione del corpo e del sangue del Signore rompeva il digiuno quaresimale.
I Greci celebrano detta cerimonia la sera, dopo l'Ufficio dei Vespri; in essa il solo celebrante si comunica, come da noi il Venerdì Santo. Però da molti secoli, fanno eccezione per il giorno dell'Annunciazione, nella quale solennità, siccome è sospeso il digiuno, celebrano il Sacrificio e i fedeli si comunicano. La norma del Concilio di Laodicea pare non sia stata mai accolta dalla Chiesa d'Occidente, e non troviamo, a Roma, nessuna traccia della sospensione del sacrificio in Quaresima.
La mancanza di spazio ci obbliga a non accennare che leggermente a tutti i dettagli di questo capitolo. Se non che ci resta ancora da dire qualche cose circa le consuetudini della Quaresima in Occidente. Già ne abbiamo fatte conoscere e spiegate parecchie del Tempo della Settuagesima. La sospensione dell'Alleluia, l'uso del colore violaceo nei paramenti sacri, la soppressione della dalmatica del diacono e della tunica del suddiacono; i due inni gioiosi Gloria in excelsis e Te Deum laudamus, entrambi proibiti; il Tratto, che supplisce nella Messa il versetto alleluiatico; l'Ite, missa est, sostituito da un'altra formula; l'Oremus della penitenza che si recita sul popolo a fine Messa, nei giorni della settimana in cui non si celebra la festa d'un Santo; i Vespri sempre anticipati prima di mezzogiorno, eccetto le Domeniche: sono diversi riti già noti ai nostri lettori. Quanto alle cerimonie attualmente in uso, rimangono da notare le preghiere che si fanno in ginocchio alla fine d'ogni Ora dell'Ufficio, nei giorni feriali, ed anche la consuetudine in virtù della quale nei medesimi giorni, tutto il Coro rimane genuflesso durante l'intero Canone della Messa.
Ma le nostre Chiese d'Occidente praticavano ancora in Quaresima altri riti, che da parecchi secoli sono caduti in disuso, sebbene alcuni di essi si siano conservati, in talune località, fino ai nostri giorni. Il più importante di tutti era quello di stendere un gran velo, ordinariamente di colore violaceo, chiamato cortina, fra il coro e l'altare, così che né il clero né il popolo potevano più vedere i santi Misteri che vi si celebravano dietro. Il velo simboleggiava il dolore della penitenza, al quale si deve sottoporre il peccatore, per meritare di contemplare di nuovo la maestà di Dio, il cui sguardo fu oltraggiato dalle sue iniquità [1]. Esso significava anche le umiliazioni di Cristo, che furono scandalo alla superbia della Sinagoga, ma poi scomparvero tutto ad un tratto, come un velo che in un attimo si toglie, per dar luogo agli splendori della Risurrezione (Onorio d'Autun, Gemma animae, l. iii, c. lxvi). La medesima usanza, fra gli altri luoghi. è rimasta anche nella Chiesa metropolitana di Parigi.
In molte Chiese c'era anche la consuetudine di velare la croce e le immagini dei santi fin dall'inizio della Quaresima, per ispirare una più viva compunzione ai fedeli, i quali si vedevano così privati della consolazione di posare lo sguardo sopra gli oggetti cari alla loro pietà. Però questa pratica, che s'è pure conservata in alcuni luoghi (come nel Rito Ambrosiano) è meno giustificata di quella della Chiesa Romana, la quale copre i crocifissi e le immagini solo nel tempo di Passione, come a suo luogo spiegheremo.
Apprendiamo dagli antichi cerimoniali del Medio Evo, che si solevano fare durante la Quaresima numerose processioni da una chiesa all'altra, particolarmente i mercoledì e i venerdì; nei monasteri queste processioni si facevano attraverso i chiostri, ed a piedi nudi (Martène, De antiquis Ecclesiae ritibus, t. iii, c. xviii). Erano un'imitazione delle Stazioni di Roma, che in Quaresima sono giornaliere, e che, per molti secoli, cominciavano con una processione solenne alla chiesa stazionale.
Finalmente, la Chiesa ha sempre moltiplicato le sue preghiere durante la Quaresima. Fino a questi ultimi tempi la disciplina voleva che nelle chiese cattedrali e collegiali, purché non esenti da una consuetudine contraria, si doveva aggiungere alle Ore Canoniche: il lunedì l'Ufficio dei Morti, il mercoledì i salmi Graduali, e il venerdì i Salmi Penitenziali. Nelle Chiese di Francia, nel Medio Evo, si doveva aggiungere un Salterio intero, ogni settimana, all'Ufficio ordinario (Martène, ivi, t. iii, c. xviii).
[1] "Sappiamo dall'antica disciplina della Chiesa, che i pubblici penitenti erano sottoposti, durante la santa Quarantena, ad un regime speciale di penitenza, che cominciava in Quaresima con l'imposizione delle ceneri e l'espulsione dalla chiesa, e terminava il Giovedì Santo con la pubblica riconciliazione. Ora a mano a mano che lo stretto regime della penitenza pubblica andò scemando, l'idea della pubblica penitenza si estese alla generalità dei fedeli. Così noi vediamo il clero e i fedeli chiedere ben presto spontaneamente l'imposizione delle ceneri e, con ciò stesso, riconoscersi, in qualche maniera, pubblici penitenti: è come se l'intera comunità dei fedeli passasse la Quaresima nella pubblica penitenza.
Ma, benché considerati come peccatori e penitenti, non potevano evidentemente tutti i fedeli esser cacciati fuori dalla chiesa; si doveva, allora, assolutamente rinunciare a ricordar loro alcune grandi verità che la Liturgia inculcava ai pubblici penitenti? I peccatori meritavano d'essere esclusi dalla chiesa, come Adamo era stato cacciato dal paradiso a causa della sua colpa: senza penitenza non era possibile raggiungere il regno del cielo e la visione di Dio. Quindi, non ha forse cercato la Liturgia di ribadire questa verità in una maniera sensibile, nascondendo alla loro vista l'altare, il santuario, l'immagine di Dio e quella dei Santi uniti a lui nella gloria celeste?" (C. Callewaert, Sacris erudiri, p. 699).
da: dom Prosper Guéranger, L'anno liturgico. - I. Avvento - Natale - Quaresima - Passione, trad. it. P. Graziani, Alba, 1959, pp. 490-496
venerdì 16 febbraio 2024
Omelia di mons.Carlo Maria Viganò nel Mercoledì delle Sacre Ceneri, in capite Jejunii
Immutemur habitu, in cinere et cilicio:
jejunemus, et ploremus ante Dominum:
quia multum misericors est dimittere peccata nostra
Deus noster.
Giole 2, 13
Memento, homo, quia pulvis es, et in pulverem reverteris.
Abbiamo udito pronunciare queste parole poco fa, durante il rito dell’imposizione delle Ceneri: Ricordati, uomo, che sei polvere, e che polvere tornerai. Mentre ci apprestiamo ad entrare nel sacro tempo penitenziale della Quaresima in preparazione al tempo di Passione e alla Santissima Pasqua, è certamente salutare rammentarci da dove veniamo e cosa ci attende.
Veniamo dalla polvere, con la quale il Creatore si è degnato di plasmare il nostro corpo in cui infondere un’anima immortale, facendoci a Sua immagine e somiglianza. Destinati alla beatitudine eterna, con il peccato siamo tornati nella polvere dell’esilio. Condannati alla perdita dell’immortalità, alla polvere della zolla abbiamo mescolato il sudore della nostra fronte. Chiamati in Abramo verso la terra promessa, nella polvere abbiamo attraversato il deserto. Nella polvere predicò il Precursore, nella polvere delle rocce il Signore fu tentato da Satana. Le nostre innumerevoli colpe hanno umiliato nella polvere del Golgota il Salvatore Nostro Gesù Cristo. Nella polvere si dissolverà il nostro corpo mortale dopo la sepoltura, in attesa della resurrezione della carne alla fine dei tempi. Nella polvere si consumerà il mondo, quando l’eterno Giudice verrà judicare sæculum per ignem. Polvere sono i monumenti antichi, polvere le carte dei sapienti, polvere i tesori raccolti, polvere i tessuti preziosi.
E, per nostra consolazione, in polvere si sgretoleranno le dimore dei malvagi, in polvere saranno dispersi i loro averi, il loro denaro, i loro idoli. Come fieno presto appassiranno, cadranno come erba del prato (Sal 36, 2); poiché i malvagi saranno sterminati, ma chi spera nel Signore possederà la terra. Ancora un poco e l’empio scompare, cerchi il suo posto e più non lo trovi (ibid. 9-10). In polvere si dissolveranno i loro piani infernali, i loro progetti di dominio, le loro agende e il loro great reset. Moriranno anch’essi, mentre il loro sogno di immortalità e di aperta sfida a Cristo si schianterà dinanzi a quella pena capitale cui nessun figlio di Adamo può sottrarsi. Il sepolcro si aprirà anche per loro, e con esso il Giudizio particolare e la giusta condanna.
In questo destino di polvere che tutti inesorabilmente attende, dobbiamo portare impressa nella mente quella Croce che per qualche ora avremo segnata in fronte con la cenere, causa proferendæ humilitatis (Bened. Cinerum, 2a Oratio); perché solo la Croce è la nostra unica speranza – spes unica – nel dissolversi delle cose effimere. Stat Crux dum volvitur orbis. Ma per amare la Croce, per comprendere la sua ineluttabilità e necessità se vogliamo salvarci, occorre comprendere – nei limiti della nostra umana fragilità – quale ineffabile miracolo di Carità abbia mosso la Santissima Trinità – il sommo Iddio Uno e Trino – a decretare che il Verbo eterno del Padre dovesse incarnarSi, patire e morire per redimere l’umanità peccatrice in Adamo. Deus caritas est (I Jo 4, 8). Il miracolo della divina Carità che brucia nelle fiamme dell’amore purissimo del Figlio immolato, le colpe degli uomini e ripara la loro infinita offesa immolando Dio a Dio, sacrificando il Figlio per le colpe del servo, e giungendo a renderSi realmente presente nell’Augustissimo Sacramento dell’Altare fino alla fine dei tempi perché la creatura si nutra del Creatore, perché lo schiavo si alimenti del proprio Liberatore. Caritas ejus in nobis consummata est (ibid., 12)
La magnificenza di Dio sfolgora nell’opera creatrice del Padre, che chiama all’essere dal nulla; nell’opera redentrice del Figlio, che ripristina in Croce l’ordine divino infranto dal peccato; nell’opera santificatrice dello Spirito Santo, che riversa nelle anime gli infiniti meriti della Redenzione mediante la Grazia. E in questo splendore divino ogni creatura è creata in modo unico ed irripetibile: non vi è la venatura di una foglia che sia uguale all’altra, e nessun uomo è identico all’altro. Similmente, ogni anima si trova redenta in modo altrettanto unico, e in modo irripetibile è toccata dalla Grazia. La Santissima Trinità – proprio perché Dio onnipotente – ha un rapporto personale con ogni anima, dal momento in cui essa è pensata e voluta e amata. Il Padre non crea in serie. Il Figlio non redime masse indistinte. Il Paraclito non santifica a caso. È sempre un rapporto personale, individuale, unico per le mille vie che il Signore sceglie per accompagnarci, ammonirci, incoraggiarci, premiarci o – Dio non voglia! – punirci. Ciascuno di noi sa bene quante infedeltà dobbiamo rimproverarci, e quante volte la Misericordia di Dio ci ha risollevato de stercore e ci ha aiutato a progredire nel Suo amore.
Ma come l’azione creatrice, redentrice e santificatrice della Santissima Trinità si manifesta in modo diverso e unico per ciascuno di noi, così unico e personale è il nostro rapporto con Dio – che non esclude ovviamente la mediazione della Chiesa – nel rispondere e nel corrispondere alla volontà del Signore. Ciò significa che le buone azioni che compiamo, i sacrifici che accettiamo, le penitenze e i digiuni che facciamo, le preghiere che recitiamo salgono al cospetto della Maestà Divina con su scritto, per così dire, il nostro nome. Dirigatur, Domine, oratio mea sicut incensum in conspectu tuo; elevatio manuum mearum sacrificium vespertinum (Sal 140, 2). E quel nome noto solo all’onniscienza di Dio vi rimane anche quando quelle buone opere sono riposte nel Tesoro di Grazie insieme ai meriti infiniti di Nostro Signore e a quelli di tutti i Santi a cui attinge la Provvidenza. Questa è una grande consolazione, perché rende ciascuno di noi veramente unico nel progetto di Dio. Ma per lo stesso motivo sono individuali e uniche anche le nostre colpe, i nostri peccati: «Indovina, Cristo! Chi è che ti ha percosso?» (Mt 26, 68). Ogni nostro peccato – meditiamolo spesso, specialmente in questa Quaresima – è uno sputo al Volto di Cristo, un colpo di canna che affonda le spine della corona nel Suo Capo. Ogni nostra colpa è una verberata che lacera le Sue Carni, un colpo di flagello che le squarcia, un colpo di martello nei palmi delle Sue Mani, una ferita di lancia al Suo Costato. E quei colpi, quegli schiaffi, quegli sputi portano su scritto il nostro nome. Come portano il nostro nome le frecce acuminate con cui trapassiamo il Cuore Immacolato della Sua Santissima Madre, misticamente unita alla Passione del Figlio.
Ma se le vicende presenti e l’attacco infernale del Nemico ci vedono impegnati in una guerra logorante che troppo spesso ci distoglie dalla preghiera, dal raccoglimento e dalla penitenza, in questo sacro tempo di Quaresima noi siamo chiamati ad esercitare lo spirito – come in un allenamento dell’anima – per rafforzarlo nell’amore di Dio, nell’unione alla Sua Passione e nella fuga dal peccato.
Così, come un soldato si cimenta in quelle discipline nelle quali si troverà poi a combattere, parimenti il fedele, che è soldato di Cristo, non può affrontare con efficacia lo scontro spirituale senza prima essersi esercitato nella lotta contro il mondo, la carne e il diavolo. La preghiera posta alla fine dell’imposizione delle Ceneri usa una terminologia chiaramente militare: Concede nobis, Domine, præsidia militiæ christianæ sanctis inchoare jejuniis: ut, contra spiritales nequitias pugnaturi, continentiæ muniamur auxilio. E se nella battaglia quotidiana dobbiamo schierarci principalmente contro nemici esterni, durante la Quaresima il nostro primo nemico siamo noi stessi, ad iniziare dal nostro difetto dominante: perché le armi che ci mette a disposizione il Signore devono trovarci in grado di impugnarle, mentre troppo spesso crediamo di poter scendere nel campo di battaglia con le nostre sole forze.
Immutemur habitu, in cinere et cilicio. Cambiamo comportamento, mutiamo la nostra condotta nella cenere e col cilicio, ossia tenendo ben fisso il nostro destino eterno, e con esso la caducità delle cose di questo mondo. Cambiamo la prospettiva dalla quale osserviamo gli eventi, considerando che tutte le nostre azioni, buone e cattive, non rimangono senza nome, né senza ricompensa o punizione. Non possiamo prendere a pretesto della nostra indolenza la società, la Gerarchia, i governanti, gli eversori del Nuovo Ordine Mondiale, i traditori, i malvagi, i tiepidi cercando di giustificare la nostra condotta o di sottrarci alla cenere e al cilicio, ossia allo spirito di penitenza e rinuncia alle cose di questo mondo che è l’unica palestra di umiltà e santità. Non declines cor meum in verba malitiæ, ad excusandas excusationes in peccatis (Sal 140, 4). Perché il Giudizio di Dio è personale, e individuale è il merito delle nostre azioni. Le iniquità altrui siano dunque uno sprone a rimediare, riparare, espiare e non un alibi dietro al quale nasconderci. Emendemus in melius: ripariamo al male commesso nella nostra ignoranza affinché, colti all’improvviso dal giorno della morte, non cerchiamo inutilmente tempo di pentirci e non ci sia possibile trovarlo (Impositio Cinerum, Responsorium).
Guardiamo alla Vergine Santissima, prescelta dalla Santissima Trinità per essere tabernacolo vivente del Dio Incarnato: il Suo benedetto Fiat – personale e formulato nel silenzio dell’interiorità – ha reso possibile la nostra Redenzione. Sia esso ogni giorno – e specialmente in questo tempo propizio di digiuno e penitenza – il modello di obbedienza alla volontà del Signore. E così sia.
+ Carlo Maria, Arcivescovo
Veniamo dalla polvere, con la quale il Creatore si è degnato di plasmare il nostro corpo in cui infondere un’anima immortale, facendoci a Sua immagine e somiglianza. Destinati alla beatitudine eterna, con il peccato siamo tornati nella polvere dell’esilio. Condannati alla perdita dell’immortalità, alla polvere della zolla abbiamo mescolato il sudore della nostra fronte. Chiamati in Abramo verso la terra promessa, nella polvere abbiamo attraversato il deserto. Nella polvere predicò il Precursore, nella polvere delle rocce il Signore fu tentato da Satana. Le nostre innumerevoli colpe hanno umiliato nella polvere del Golgota il Salvatore Nostro Gesù Cristo. Nella polvere si dissolverà il nostro corpo mortale dopo la sepoltura, in attesa della resurrezione della carne alla fine dei tempi. Nella polvere si consumerà il mondo, quando l’eterno Giudice verrà judicare sæculum per ignem. Polvere sono i monumenti antichi, polvere le carte dei sapienti, polvere i tesori raccolti, polvere i tessuti preziosi.
E, per nostra consolazione, in polvere si sgretoleranno le dimore dei malvagi, in polvere saranno dispersi i loro averi, il loro denaro, i loro idoli. Come fieno presto appassiranno, cadranno come erba del prato (Sal 36, 2); poiché i malvagi saranno sterminati, ma chi spera nel Signore possederà la terra. Ancora un poco e l’empio scompare, cerchi il suo posto e più non lo trovi (ibid. 9-10). In polvere si dissolveranno i loro piani infernali, i loro progetti di dominio, le loro agende e il loro great reset. Moriranno anch’essi, mentre il loro sogno di immortalità e di aperta sfida a Cristo si schianterà dinanzi a quella pena capitale cui nessun figlio di Adamo può sottrarsi. Il sepolcro si aprirà anche per loro, e con esso il Giudizio particolare e la giusta condanna.
In questo destino di polvere che tutti inesorabilmente attende, dobbiamo portare impressa nella mente quella Croce che per qualche ora avremo segnata in fronte con la cenere, causa proferendæ humilitatis (Bened. Cinerum, 2a Oratio); perché solo la Croce è la nostra unica speranza – spes unica – nel dissolversi delle cose effimere. Stat Crux dum volvitur orbis. Ma per amare la Croce, per comprendere la sua ineluttabilità e necessità se vogliamo salvarci, occorre comprendere – nei limiti della nostra umana fragilità – quale ineffabile miracolo di Carità abbia mosso la Santissima Trinità – il sommo Iddio Uno e Trino – a decretare che il Verbo eterno del Padre dovesse incarnarSi, patire e morire per redimere l’umanità peccatrice in Adamo. Deus caritas est (I Jo 4, 8). Il miracolo della divina Carità che brucia nelle fiamme dell’amore purissimo del Figlio immolato, le colpe degli uomini e ripara la loro infinita offesa immolando Dio a Dio, sacrificando il Figlio per le colpe del servo, e giungendo a renderSi realmente presente nell’Augustissimo Sacramento dell’Altare fino alla fine dei tempi perché la creatura si nutra del Creatore, perché lo schiavo si alimenti del proprio Liberatore. Caritas ejus in nobis consummata est (ibid., 12)
La magnificenza di Dio sfolgora nell’opera creatrice del Padre, che chiama all’essere dal nulla; nell’opera redentrice del Figlio, che ripristina in Croce l’ordine divino infranto dal peccato; nell’opera santificatrice dello Spirito Santo, che riversa nelle anime gli infiniti meriti della Redenzione mediante la Grazia. E in questo splendore divino ogni creatura è creata in modo unico ed irripetibile: non vi è la venatura di una foglia che sia uguale all’altra, e nessun uomo è identico all’altro. Similmente, ogni anima si trova redenta in modo altrettanto unico, e in modo irripetibile è toccata dalla Grazia. La Santissima Trinità – proprio perché Dio onnipotente – ha un rapporto personale con ogni anima, dal momento in cui essa è pensata e voluta e amata. Il Padre non crea in serie. Il Figlio non redime masse indistinte. Il Paraclito non santifica a caso. È sempre un rapporto personale, individuale, unico per le mille vie che il Signore sceglie per accompagnarci, ammonirci, incoraggiarci, premiarci o – Dio non voglia! – punirci. Ciascuno di noi sa bene quante infedeltà dobbiamo rimproverarci, e quante volte la Misericordia di Dio ci ha risollevato de stercore e ci ha aiutato a progredire nel Suo amore.
Ma come l’azione creatrice, redentrice e santificatrice della Santissima Trinità si manifesta in modo diverso e unico per ciascuno di noi, così unico e personale è il nostro rapporto con Dio – che non esclude ovviamente la mediazione della Chiesa – nel rispondere e nel corrispondere alla volontà del Signore. Ciò significa che le buone azioni che compiamo, i sacrifici che accettiamo, le penitenze e i digiuni che facciamo, le preghiere che recitiamo salgono al cospetto della Maestà Divina con su scritto, per così dire, il nostro nome. Dirigatur, Domine, oratio mea sicut incensum in conspectu tuo; elevatio manuum mearum sacrificium vespertinum (Sal 140, 2). E quel nome noto solo all’onniscienza di Dio vi rimane anche quando quelle buone opere sono riposte nel Tesoro di Grazie insieme ai meriti infiniti di Nostro Signore e a quelli di tutti i Santi a cui attinge la Provvidenza. Questa è una grande consolazione, perché rende ciascuno di noi veramente unico nel progetto di Dio. Ma per lo stesso motivo sono individuali e uniche anche le nostre colpe, i nostri peccati: «Indovina, Cristo! Chi è che ti ha percosso?» (Mt 26, 68). Ogni nostro peccato – meditiamolo spesso, specialmente in questa Quaresima – è uno sputo al Volto di Cristo, un colpo di canna che affonda le spine della corona nel Suo Capo. Ogni nostra colpa è una verberata che lacera le Sue Carni, un colpo di flagello che le squarcia, un colpo di martello nei palmi delle Sue Mani, una ferita di lancia al Suo Costato. E quei colpi, quegli schiaffi, quegli sputi portano su scritto il nostro nome. Come portano il nostro nome le frecce acuminate con cui trapassiamo il Cuore Immacolato della Sua Santissima Madre, misticamente unita alla Passione del Figlio.
Ma se le vicende presenti e l’attacco infernale del Nemico ci vedono impegnati in una guerra logorante che troppo spesso ci distoglie dalla preghiera, dal raccoglimento e dalla penitenza, in questo sacro tempo di Quaresima noi siamo chiamati ad esercitare lo spirito – come in un allenamento dell’anima – per rafforzarlo nell’amore di Dio, nell’unione alla Sua Passione e nella fuga dal peccato.
Così, come un soldato si cimenta in quelle discipline nelle quali si troverà poi a combattere, parimenti il fedele, che è soldato di Cristo, non può affrontare con efficacia lo scontro spirituale senza prima essersi esercitato nella lotta contro il mondo, la carne e il diavolo. La preghiera posta alla fine dell’imposizione delle Ceneri usa una terminologia chiaramente militare: Concede nobis, Domine, præsidia militiæ christianæ sanctis inchoare jejuniis: ut, contra spiritales nequitias pugnaturi, continentiæ muniamur auxilio. E se nella battaglia quotidiana dobbiamo schierarci principalmente contro nemici esterni, durante la Quaresima il nostro primo nemico siamo noi stessi, ad iniziare dal nostro difetto dominante: perché le armi che ci mette a disposizione il Signore devono trovarci in grado di impugnarle, mentre troppo spesso crediamo di poter scendere nel campo di battaglia con le nostre sole forze.
Immutemur habitu, in cinere et cilicio. Cambiamo comportamento, mutiamo la nostra condotta nella cenere e col cilicio, ossia tenendo ben fisso il nostro destino eterno, e con esso la caducità delle cose di questo mondo. Cambiamo la prospettiva dalla quale osserviamo gli eventi, considerando che tutte le nostre azioni, buone e cattive, non rimangono senza nome, né senza ricompensa o punizione. Non possiamo prendere a pretesto della nostra indolenza la società, la Gerarchia, i governanti, gli eversori del Nuovo Ordine Mondiale, i traditori, i malvagi, i tiepidi cercando di giustificare la nostra condotta o di sottrarci alla cenere e al cilicio, ossia allo spirito di penitenza e rinuncia alle cose di questo mondo che è l’unica palestra di umiltà e santità. Non declines cor meum in verba malitiæ, ad excusandas excusationes in peccatis (Sal 140, 4). Perché il Giudizio di Dio è personale, e individuale è il merito delle nostre azioni. Le iniquità altrui siano dunque uno sprone a rimediare, riparare, espiare e non un alibi dietro al quale nasconderci. Emendemus in melius: ripariamo al male commesso nella nostra ignoranza affinché, colti all’improvviso dal giorno della morte, non cerchiamo inutilmente tempo di pentirci e non ci sia possibile trovarlo (Impositio Cinerum, Responsorium).
Guardiamo alla Vergine Santissima, prescelta dalla Santissima Trinità per essere tabernacolo vivente del Dio Incarnato: il Suo benedetto Fiat – personale e formulato nel silenzio dell’interiorità – ha reso possibile la nostra Redenzione. Sia esso ogni giorno – e specialmente in questo tempo propizio di digiuno e penitenza – il modello di obbedienza alla volontà del Signore. E così sia.
+ Carlo Maria, Arcivescovo
14 Febbraio 2024
Feria IV Cinerum
domenica 11 febbraio 2024
Le solenni “Sante Quarantore”
“Solenni Quarantore” o “Sante Quarantore”: ci viene subito in mente che si tratti di una forma di adorazione eucaristica ma ci chiediamo: “Perché 40 ore?”, “Perché dobbiamo farle?”, “Cos’è di preciso l’adorazione eucaristica e come va fatta?”
Quaranta ore, secondo il calcolo di S. Agostino, dalle tre di quel giorno che gli Ebrei chiamavano “parasceve” alle sette del mattino dell’ottavo giorno, dal momento in cui Cristo, “chinato il capo, spirò” all’annuncio della resurrezione.
Le Quarantore, una pratica che pare sia nata in Dalmazia nel 1214 e fu poi portata in Italia a inizio Cinquecento, (dovrebbe essere stata praticata a Roma in occasione del “sacco” nel 1527, come preghiera di intercessione e liberazione, e poi in concomitanza di altre calamità naturali sociali o sanitarie), lanciata dai Barnabiti e consolidata dai Gesuiti, per passare poi, in Spagna, Francia, Germania e nel resto d’Europa e poi nell’Ottocento negli Stati Uniti, allorché il Vescovo Neuman le introdusse nella diocesi di Philadelphia.
Se le Quarantore sono nate come una modalità di adorazione prolungata legata al venerdì santo, dobbiamo ricordare che i Gesuiti le proposero in forma solenne e festosa in occasione di uno spettacolo licenzioso, a cui dovevano costituire un’alternativa. E ci riuscirono pienamente. Si diffuse pertanto l’idea di celebrarle a Carnevale, tempo di trasgressione, e poi quattro volte l’anno. Divennero poi una modalità di preghiera intensa in occasione di grandi calamità naturali e ad esse fu associata l’elargizione di indulgenze. “La storia dice che, durante i giorni della solenne esposizione, le città cambiavano fisionomia: i negozi chiudevano; i lavori dei campi erano sospesi; le barriere sociali cadevano e la fede rifioriva nel cuore della gente che imparava a pregare e a meditare. L’adorazione coinvolgeva tutte le categorie di persone che, giorno e notte, si avvicendavano in preghiera, spesso in modo inventivo e spontaneo, per quaranta ore davanti a Gesù Eucaristia. Per tre giorni si stabiliva quasi una tregua Dei perché «i violenti diventavano mansueti; i ladri restituivano il maltolto; i falsari diventavano onesti; i nemici si riconciliavano; la gioventù si innamorava di Dio e i sacerdoti non si allontanavano dall’altare e dai confessionali»” (Egidio Picucci , “L’Osservatore Romano”, 2-3 maggio 2005). Una staffetta di adoratori che non lasciassero mai il Santissimo inadorato, che si alternava nelle ore diurne e notturne, era il panorama delle Quarantore prima nelle grandi città, poi nei piccoli centri.
È opportuno che riscopriamo il valore e il culto per l’Eucaristia: i padri spirituali sottolineano l’importanza dell’attenzione nel ringraziamento dopo-comunione come elemento basilare per crescere nella spiritualità eucaristica. Fare adorazione (dal latino “ad orem”, cioè ‘alla bocca’, dove si porta il dito indice in segno di richiesta di silenzio, per rispetto verso qualcosa che è più importante) è ritrovarsi come i discepoli che 2000 anni fa si radunavano attorno a Gesù e lo ascoltavano, dialogavano con lui, rileggevano la propria vita alla luce delle sue parole, si convertivano. L’adorazione eucaristica è momento di discernimento delle situazioni della propria vita davanti a Gesù sacramentato.Le Quarantore sono la rievocazione del periodo che intercorre tra la morte di Gesù e la sua risurrezione. Nella Bibbia spesso il numero 40 viene utilizzato come simbolo per indicare un periodo di prova e di isolamento. Nella prassi rituale ricorrono due modalità di celebrazioni delle Quarantore: un turno annuale ininterrotto di adorazione che si perpetua di chiesa in chiesa e una forma sporadica, solo ad alcuni momenti dell’anno, fatta spesso senza l’adorazione notturna, che è quella più diffusa e in uso ancora oggi in molte comunità parrocchiali.
Nei secoli XVII e XVIII questa seconda forma fu introdotta nei tre giorni precedenti il mercoledì delle Ceneri come funzione riparatrice da opporre alle intemperanze del Carnevale, sostenuta e diffusa soprattutto dai Gesuiti ma già prima del 1550 l’esposizione prolungata del Santissimo Sacramento a Roma fu voluta fortemente dal buon San Filippo Neri per la Confraternita della SS. Trinità dei Pellegrini a Roma,che ne organizzò diverse, nella chiesa di San Salvatore in Campo e nella sede di alcune Confraternite quali, Santa Caterina da Siena, Orazione e buona Morte... Questa devozione fu valorizzata da Giovanni Giovenale Ancina che formulò delle istruzioni precise e compose pezzi musicali dedicati a questa celebrazione.
Eventi ancora più spettacolari,venivano offerti tra una predica, che nello Stato Pontificio non si negava mai a nessuno, una sacra rappresentazione e una Via Crucis, erano le Quarantore.
Diverse erano le forme di rappresentare l’esposizione nelle Quarantore: ad esempio i Cappuccini usavano una scenografia povera costituita da croci e corone di spine che richiamavano la Passione di Gesù mentre i gesuiti pagavano fior di baiocchi agli artisti, per queste architetture effimere, come per esempio Carlo Rainaldi, tanto che questi catafalchi, furono, in analogia con quelli delle processioni, definiti “macchine”, strumenti per provocare lo stupore del pubblico.
Anche l’Esquilino non fu esente da questa passione: il Borromini era responsabile della macchina delle Quarantore di Santa Maria Maggiore, che colpì l’immaginazione dei contemporanei con le sue false prospettive e il viaggiatore napoletano Andrea Dessì ne cita, una definita molto semplice, presso la chiesa dei Celestini a Sant’Eusebio e una a Santa Bibiana, progettata dallo scenografo del Teatro Barberini Francesco Guitti, delle quali, per lo meno per quanto ne so io, non ne sono rimaste testimonianze iconografiche.
A continuare queste tradizioni, a Roma non rimangono che la Basilica dei Santi Celso e Giuliano via del Banco di Santo Spirito, la chiesa Arciconfraternita di S. Maria dell’Orto a Trastevere che allestisce una struttura in legno intagliato e dorato, scolpita nel 1848 dal Maestro Filippo Clementi, che ospita ben 213 candele vere che vengono accese il Giovedì Santo dopo la S. Messa i “Coena Domini”.E la chiesa della Confraternita della SS. Trinità dei Pellegrini a Roma.
Diverse erano le forme di rappresentare l’esposizione nelle Quarantore: ad esempio i Cappuccini usavano una scenografia povera costituita da croci e corone di spine che richiamavano la Passione di Gesù mentre i gesuiti pagavano fior di baiocchi agli artisti, per queste architetture effimere, come per esempio Carlo Rainaldi, tanto che questi catafalchi, furono, in analogia con quelli delle processioni, definiti “macchine”, strumenti per provocare lo stupore del pubblico.
Anche l’Esquilino non fu esente da questa passione: il Borromini era responsabile della macchina delle Quarantore di Santa Maria Maggiore, che colpì l’immaginazione dei contemporanei con le sue false prospettive e il viaggiatore napoletano Andrea Dessì ne cita, una definita molto semplice, presso la chiesa dei Celestini a Sant’Eusebio e una a Santa Bibiana, progettata dallo scenografo del Teatro Barberini Francesco Guitti, delle quali, per lo meno per quanto ne so io, non ne sono rimaste testimonianze iconografiche.
A continuare queste tradizioni, a Roma non rimangono che la Basilica dei Santi Celso e Giuliano via del Banco di Santo Spirito, la chiesa Arciconfraternita di S. Maria dell’Orto a Trastevere che allestisce una struttura in legno intagliato e dorato, scolpita nel 1848 dal Maestro Filippo Clementi, che ospita ben 213 candele vere che vengono accese il Giovedì Santo dopo la S. Messa i “Coena Domini”.E la chiesa della Confraternita della SS. Trinità dei Pellegrini a Roma.
sabato 10 febbraio 2024
XXII Motivi per rifiutare il messale scaturito dalla riforma Roncalliana Giovanni XXIII 1962
I) Il Messale di San Pio X è stato promulgato da un Papa Santo canonizzato che condannò il modernismo e composto con la collaborazione di sacerdoti assolutamente ortodossi, in egual modo colti e pii.
(il messale roncalliano è stato promulgato da un papa già sospettato di modernismo che aprì le porte della Chiesa a eretici massoni e scismatici servendosi della preziosissima opera di demolizione dei frà massoni F.Antonelli e Annibale Bugnini.
II) Il messale di San Pio X è basato sui principi del Cattolicesimo in materia liturgica, seguita sempre e in ogni circostanza dai papi.
Questo messale fu utilizzato,senza manomissioni, fino all'ascesa del cosidetto "Movimento Liturgico" negli anni cinquanta.
( il messale roncalliano fu basato invece sui principi del movimento liturgico condannati dai papi).
III) Il Messale di San Pio X non innova nulla ma rimane strettamente legato alla tradizione per usare le parole di papa Benedetto XIV lambertini
( Il messale roncalliano è un ponte che apre una strada ad un promettente futuro per usare le parole di Annibale Bugnini)
IV) Nel Messale di San Pio X le preghiere ai piedi dell'altare sono sempre recitate
( nel messale roncalliano sono omesse alla festa della Purificazione mercoledì delle ceneri domenica delle Palme giovedì Santo e Sabato Santo e i quattro giorni delle rogazioni
V)La Colletta nel Messale di San Pio X nei giorni di minore rango liturgico, oltre la colletta del giorno, vengono recitate le collette di Nostra Signora Di Nostra Signora di tutti i Santi contro le persecuzioni della Chiesa per il Papa o per i fedeli defunti ecc..
(nel messale roncalliano tutte le collette vengono abolite)
VI) Le commemorazioni di unna festa di un rango minore di un Santo o di una domenica sono fatte in accordo con le rubriche del messale di San Pio X.
(nel messale roncalliano vengono abolite)
VII) Nel Messale di San Pio X le letture sulle Quattro Tempora sono sempre recitate
(nel messale roncalliano l'intero blocco delle letture diventono facoltative)
VIII) Nel messale di San Pio x l'epistola viene sempre letta dal sacerdote in una messa solenne , come stabilito da San PIO V
(Nel messale roncalliano siede a lato come nella riforma montiniana)
IX) il Vangelo viene sempre letto dal celebrante in una messa solenne come specificamente stabilito da San Pio V
(nel messale roncalliano lo può ascoltare mentre un'altro lo legge)
X) Nel Messale di San Pio X la sequenza del "Dies irae" deve essere sempre cantata in una messa da morto solenne
(nel messale roncalliano diventa opzionale)
XI)Il Credo nel Messale di San Pio X è recitato in moltissime feste, d'accordo con le rubriche
(nel messale roncalliano e abolito in moltissime feste)
XII) Il Canone, nel messale di San Pio X rimane invariato come dai tempi di San Gregorio Magno.
( nel messale roncalliano viene inserito San Giuseppe in modo tale da rendere il Canone ulteriolmente plasmabile e mutalile)
XIII) Nel Messale di San Pio X il Confiteor Misereatur e Indulgentiam devono sempre essere detti prima della Santa Comunione del Popolo
( nel messale roncalliano vengono aboliti )
XIV) Nel Messale di San Pio X il benedicamus Domino è detto al posto dell'ite missa est nelle domeniche di avvento quaresima nelle vigilie e nelle messe votive
( nel messale roncalliano è abolito eccetto quando dopo la messa segue una processione)
XV) Nel Messale di San Pio X l'ultimo Vangelo deve essere recitato alla fine della messa può essere l'inizio del vangelo di San Giovanni o il propio della festa occorrente.
( nel messale Roncalliano è abolito l'ultimo vangelo propio della festa con una sola eccezione non viene letto la III Domenica di Natale Giovedì Santo Sabato Santo e alla messa da requiem)
XVI) Nel Messale roncalliano sono abolite le seguenti feste:
San Giuseppe patrono della Chiesa universale e trasformato in artigiano
circoncisione di Nostro Signore Gesù trasformata in ottava di Natale
la festa del Santo Rosario della B.V.Maria traformata in festa della madonna del Rosario
XVII) Sono degradate le seguenti feste nel messale Roncalliano
San Giorgio
B.V.Maria Del Carmine
S.Alessio
Santi Ciriaco, Largo,e smeragdo,
impressioni delle stimmate di San Francesco
S.Eustachio e compagni
Nostra Signora della Mercede
San Tommaso becket
san Silvestro e la festa dei Sette Dolori di Maria Santissima
XVIII)Sono abolite nel messale roncalliano le seguenti ottave:
Epifania
Immacolata Concezione
Le ottave dei Santi Apostoli : Mattia, Giacomo, Bartolomeo, Matteo, e per finire l'ottava di tutti i Santi.
XIX) vengono abolite nel messale roncalliano le seguenti vigilie:
Epifania,Pentecoste,Immacolata Concezione,Tutti i Santi, Mattia Apostolo bartolomeo Apostolo, Giacomo Apostolo, Matteo Apostolo.
XX) Nel Messale di San Pio X i tre toni di voci del celebrante sono;udibile, segreto udibile dai circostanti l'altare
(nel messale roncalliano Aboliti)
XXI)Nel messale di San Pio X il celebrante sia se si trova al lato dell'Epistola che a quello del Vangelo fa sempre la riverenza verso la Croce quando nomina il Santo Nome
(nel messale Roncalliano la reverenza alla croce viene Abolita)
XXII) I Riti della settimana Santa sono riportati nel Messale di San Pio X fedelmente come sono le prescrizioni di San Pio V
(Con la riforma roncalliana del messale non abbiamo più una settimana Santa fedelmente alle prescrizioni di san Pio V ,ma bensì più fedele alla rifoma Montiniana con qualche piccolissima modifica.)
giovedì 8 febbraio 2024
Mons. Carlo Maria Viganò HABEMUS PAPAM? Note all’ultimo saggio del prof. Massimo Viglione
Habemus Papam? Il recente saggio del Prof. Massimo Viglione pone una domanda che solo undici anni fa era improponibile e impensabile per il Cattolico medio e forse anche per un canonista, dal momento che gli errori e le deviazioni del Vaticano II non si erano ancora palesati nella loro dirompente evidenza, giungendo ad essere affermati ore rotundo da colui che avrebbe dovuto invece condannarli. Pensiamo a Amoris Lætitia, al provvedimento con cui è stata modificata la dottrina sulla pena capitale o all’ultima, scandalosa dichiarazione Fiducia Supplicans, impugnata da intere Conferenze Episcopali. Con questo voglio dire che il recente “risveglio” di molti Cattolici – tra cui non posso non annoverare me stesso, nel percorso di ritorno alla Tradizione di questi ultimi anni – consente di capire anche solo intuitivamente, mediante il sensus Fidei, che non avremmo mai potuto veder profanare una Basilica romana da una simulazione di Messa di un finto vescovo anglicano senza prima l’abbraccio di Montini con il non meno eretico Patriarca Atenagora, o senza gli incontri di Assisi e le visite alle Sinagoghe da parte di Wojtyla e Ratzinger; e che se oggi Bergoglio prepara l’accesso al Sacerdozio per le donne, ciò lo si deve alla manomissione degli Ordini Sacri iniziata da Paolo VI con la temeraria soppressione degli Ordini Minori e del Suddiaconato, sempre in chiave ecumenica filo-protestante.
Quello che a mio parere è il merito indiscutibile di quest’opera del Prof. Viglione non è solo l’aver saputo elencare sinteticamente e con chiarezza le varie tesi a proposito della risposta cattolica dinanzi all’eresia manifesta del Pontefice e alla vicenda della Rinunzia di Benedetto XVI, ma anche e soprattutto l’aver finalmente posto la domanda cruciale: Abbiamo un Papa? Perché è questa domanda, proprio nelle sue terribili implicazioni, che nessuno aveva osato sinora porre al grande pubblico, limitandosi a speculazioni accademiche o a marginali realtà ecclesiali. È questa la domanda che coraggiosamente pone l’Autore di un saggio di cui non posso che raccomandare vivamente un’attenta lettura.
Questo è un libro “che farà discutere”, perché rende comprensibile un dibattito sinora confinato alle disquisizioni accademiche di (pochi) critici del presente “pontificato” o divulgato da personaggi che hanno strumentalizzato e polarizzato lo scontro per avere visibilità. Merito di Viglione è di aver riportato la questione sui binari di un sano realismo, sine ira et studio, e di aver reso comprensibile analizzando le diverse posizioni non più sulla mera ipotesi di un Papa eretico, ma sulla dolorosa evidenza dell’eresia di Jorge Mario Bergoglio e sulle risposte sinora avanzate.
L’Autore non si limita alla semplice enumerazione delle tesi, ma mostra le criticità di alcune e la plausibilità di altre: tra queste ultime, quella da me formulata sul vizio di consenso che renderebbe nulla l’assunzione del Papato da parte di Bergoglio a causa di una deliberata volontà dolosa di appropriarsene per usarlo in modo opposto ai fini che gli ha dato il divino Fondatore della Chiesa, Nostro Signore. Altra tesi di grande valore – e per questo giustamente affrontata dall’Autore – è quella del prof. Enrico Maria Radaelli, relativa all’anomalia della Rinunzia e dell’invenzione del Papato emerito. Condivido la persuasione di Viglione circa la pertinenza e il rigore di questa analisi, specialmente se la si integra con il vitium consensus del successore di Benedetto XVI, come suggerito dallo stesso Radaelli, e la si legge alla luce dell’hegelismo dialettico di Ratzinger.
Il prof. Viglione non intende fornire risposte definitive, ma anzitutto far sì che il tema sia affrontato e discusso, perché solo da una onesta presa di coscienza del “problema Bergoglio” possiamo approfondire la dottrina sul Papato in quegli aspetti che i Dottori della Chiesa e i canonisti del passato concepivano come remota eventualità, mentre per i Cattolici ostaggio della “chiesa sinodale” si sono mostrati come reali.
Nell’elenco delle tesi sulla vacanza della Sede Apostolica non potevano non essere ricordate anche le elucubrazioni “fantacanoniche” del Codice Ratzinger di Andrea Cionci e dei suoi seguaci. Non sfuggirà al Lettore l’inconsistenza della fantomatica teoria della “sede impedita”, che costituisce una falsa premessa che inficia l’intero ragionamento, oltre a gettare – come rileva l’Autore – inquietanti ombre sulla onestà e la correttezza di agire di Benedetto XVI. Ritenere che egli abbia potuto lanciare dei messaggi criptici rivolti ad una ristretta cerchia di iniziati, basando questa convinzione su fatti del tutto opinabili e circostanziali – convinzione assurta a prova inoppugnabile ed ossessivamente imposta come verità dogmatica – relega le speculazioni di Cionci & Co. al genere fantasy mutuato da Dan Brown.
Certo, il “pontificato” di Jorge Mario Bergoglio è un ἅπαξ, un caso unico in tutta la Storia bimillenaria della Chiesa, sia per le modalità che hanno portato il Gesuita Argentino sul Soglio di Pietro, sia per la palese complicità della deep church in questo piano eversivo, sia infine per la specularità dell’azione di Bergoglio in seno alla Chiesa – come esponente di punta della deep church – rispetto a quella del deep state nelle nazioni occidentali. Ma questo unicum è il frutto avvelenato di una malapianta le cui radici ideologiche affondano nel neomodernismo del Vaticano II, che riuscì a coniugare la devoluzione dell’autorità sacra del Romano Pontefice a organismi assembleari di matrice “democratica” con la progressiva trasformazione del Papa in tiranno divinis legibus solutus. Se un’istituzione separa infatti l’esercizio del potere dalla necessaria subordinazione all’autorità di Cristo Re e Pontefice, che ne è il supremo Garante, essa perde ogni sua legittimazione e non può che diventare, come già avvenuto nella sfera civile, espressione di lobby e di interessi senza alcun freno. Il paradosso – e l’astuzia luciferina – di questo colpo di stato ecclesiale è consistito nel mantenere le apparenze del Papato al solo scopo di poter pretendere obbedienza da quanti ancora credono che chi siede sul Soglio di Pietro sia il Vicario di Cristo scelto dallo Spirito Santo, mentre in realtà è un mercenario che abusa della fiducia e del rispetto dei fedeli per disperderli. Lo stesso fenomeno sta avvenendo nei governi temporali, dove i governanti rivendicano un potere illimitato – fino allo sterminio – sui propri cittadini, illusi che chi li rappresenta nei Parlamenti abbia come scopo il bene comune. E non è un caso se questa “dittatura democratica” sia stata possibile solo dopo aver spodestato Nostro Signore della Sua Signoria sulle nazioni.
Quel che lascia ancora sperare in un risveglio delle coscienze è che le reazioni di laici, sacerdoti, vescovi e anche di parte del mondo profano dinanzi alla vexata quæstio non sono di scandalo o di stupore, ma di totale consapevolezza del “problema Bergoglio”. Il Prof. Viglione rileva anche la contraddizione di chi da un lato è consapevole e denuncia le deviazioni del Gesuita Argentino, ma dall’altro non ritiene che questo abbia alcuna conseguenza sul suo riconoscimento come Papa, limitandosi a considerare come “non magisteriali” i suoi interventi a cui non è dovuta obbedienza. Vi è da sperare che l’allargarsi della platea di Cattolici informati sul tema consenta di chiarire le posizioni più incoerenti di aprioristica “difesa d’ufficio” che rischia di sconfinare nell’aperta complicità. Ciò che è dunque riconosciuto in modo praticamente unanime dai Cattolici è l’anomalia del “papato” attuale: un’anomalia di cui i progressisti sono entusiasti e che i conservatori e tradizionalisti considerano inaudita e scandalosa, ma di cui tutti sono consapevoli, dal professore dell’Ateneo romano al semplice battezzato.
Le risposte a questa anomalia rappresentano il tentativo di trovare una soluzione alla crisi che stiamo attraversando, che è unica nel suo genere e che – tengo a ribadirlo – non può essere giudicata secondo gli ordinari parametri di un sistema giuridico pensato per condizioni di relativa normalità. Ci troviamo infatti dinanzi ad un tradimento che non coinvolge solo alcuni settori dell’istituzione, ma tutti i suoi organi, a partire dai vertici; un tradimento iniziato sessant’anni fa, con l’abdicazione della Gerarchia dal suo dovere di predicare il Vangelo di Cristo contro l’antievangelo del mondo; un tradimento compiuto con la distruzione della Messa e della Liturgia, proprio perché gli eversori sanno bene il potere pedagogico dei riti e dei gesti nella trasmissione della Fede. E come nelle scuole si fa indottrinamento all’ideologia woke con la cancel culture, così nelle chiese sono state indottrinate intere generazioni all’ecumenismo, al disprezzo del proprio passato, all’accettazione di istanze incompatibili con il Magistero Cattolico. E tutto questo, scandalosamente, con la ratifica dell’autorità, anzi sotto sua deliberata spinta, sia nella sfera civile sia in quella ecclesiale. La domanda che ci dobbiamo dunque porre non è solo Habemusne Papam?, ma come sia stato possibile assistere in silenzio alla sistematica infiltrazione nella Chiesa di eretici e corrotti, le cui idee e i cui propositi erano ampiamente noti; e quale sia la responsabilità della Gerarchia – ad iniziare dai “Papi del Concilio”, nessuno escluso – in questa sostituzione sconsiderata e certamente disastrosa, soprattutto quando il potenziale distruttivo di questa operazione eversiva era evidente sin dal principio e c’era ancora modo di porvi rimedio. L’azione recente di Jorge Mario Bergoglio è perfettamente coerente con l’opera di erosione dottrinale, morale, disciplinare e liturgica condotta a partire dal Pontificato di Giovanni XXIII e mai interrotta, anche davanti allo svuotamento disastroso di chiese, seminari, conventi e scuole cattoliche. Anzi viene da pensare che il mancato intervento di fronte a questo patente fallimento sia una conferma della premeditazione e del dolo da parte di chi non ha mai avuto l’umiltà di rimettere in discussione le sue fallaci certezze. Anche qui, il parallelo con il deep state è evidente, perché in entrambi i casi gli scopi dichiarati (favorire il dialogo della Chiesa con il mondo moderno o rendere comprensibile la Liturgia ai fedeli da un lato; contenere una pandemia mortale o far fronte al cambiamento climatico dall’altro, giusto per fare due esempi) sono menzogne che servono a distrarre dal vero obiettivo, che è criminale e inconfessabile.
Se la dissoluzione dello Stato è evidente nel tradimento dei governanti e nel loro asservimento alla lobby globalista allo scopo di ridurre la popolazione mondiale e ridurre in schiavitù quella rimanente, non meno palese è la dissoluzione della Chiesa – nella sua componente umana, ovviamente – nel tradimento della maggioranza della Gerarchia cattolica, asservita anch’essa agli stessi padroni allo scopo di eliminare quel κατέχων (2Tes 2, 6) che impedisce al “mistero di iniquità” di manifestarsi. Come ho già ricordato, non ci troviamo in una Chiesa la cui Gerarchia è cattolica e si trova un Papa che professa un’eresia ma che allo stesso tempo è sinceramente intenzionato a pascere il Gregge del Signore, bensì davanti a una Chiesa eclissata da un colpo di stato, nella quale ogni Dicastero, ogni Ateneo, ogni Seminario, ogni Diocesi, ogni parrocchia, ogni convento sono diretti e gestiti dalla deep church, nell’ostracismo e nella persecuzione aperta a chiunque dissenta anche limitandosi al Magistero recente senza mettere in discussione il Concilio. Ne abbiamo conferma dalla totale autoreferenzialità del cosiddetto “magistero” di Bergoglio, come ribadito entusiasticamente dal Prefetto Tucho. Basta scorrere i rimandi alle fonti nei documenti “papali” per comprendere che l’insegnamento bergogliano è sì volutamente “nuovo” rispetto a quello degli immediati Predecessori, ma solo nelle modalità “di forzatura”, dal momento che i principi a cui Bergoglio fa riferimento costante sono esattamente gli stessi dei Papi conciliari. Potremmo dire, per semplificare, che Bergoglio sta al giacobino Robespierre come Ratzinger al girondino Brissot, entrambi però fautori della Rivoluzione.
Habemus Papam? Papa eretico, rinuncia, sede vacante costituisce un prezioso contributo alla comprensione di un fenomeno ormai innegabile, pensato non come sterile cimento accademico, ma per amore della Chiesa e del Papato, oggi umiliati e screditati da una Gerarchia asservita al mondo, incurante della perdita di tante anime per le quali il Signore ha sparso il Suo Sangue. Sia dunque lo stesso amore per la Chiesa e per il Papato a guidarne la lettura.
+ Carlo Maria Viganò, Arcivescovo
5 Febbraio 2024
S. Agathæ Virginis et Martyris
Messaggio di Mons. Carlo Maria Viganò ai partecipanti al congresso di Democrazia Sovrana Popolare
domenica 4 febbraio 2024
A proposito del libro “Habemus papam?” / Viglione risponde al professor de Mattei
di Massimo Viglione
Il 1° febbraio 2024 il professor Roberto de Mattei ha recensito, sul periodico da lui diretto [qui] il mio libro, appena edito, Habemus papam? Papa eretico. Rinuncia. Sede vacante. L’insegnamento del passato e il dibattito dopo l’11 febbraio 2013 (Edizioni Maniero del Mirto, 2024) [qui l’intervista che mi è stata fatta in proposito da Duc in altum].
Nel ringraziare il professore per la sua attenzione al mio lavoro, mi trovo costretto ad avanzare chiarimenti su alcune sue affermazioni che ritengo errate e su alcune dichiarazioni non rispondenti al vero. Anche perché, come potremo vedere, dalla sua trattazione si potrebbero evincere conclusioni sul mio conto non rispondenti alla realtà, ed è quindi doveroso per me chiarire nero su bianco la verità.
Siccome una trattazione approfondita della questione richiederebbe un altro libro, mi limito a un veloce schema per chiarire le principali problematiche.
Punto primo
De Mattei scrive: «Se per Cionci Ratzinger è un “genio del bene”, per Viglione, è un “genio del male”, “dialetticamente perfetto” (p. 247)».
E questo non risponde al vero, perché le parole riportate, estrapolate dal contesto in cui sono scritte, riescono fuorvianti. Io affermo, al contrario, sulla scia di altri autori da me esaminati nel libro che sostengono altrettanto, che il dottor Cionci, e con lui il suo numeroso e chiassoso seguito, non si rendono conto che qualora il cosiddetto “Codice Ratzinger” fosse vero, Benedetto XVI sarebbe sì un genio, ma non del bene, bensì del male, a causa dell’inganno perpetrato, fino al giorno della morte (quindi per dieci anni), all’intera cattolicità (e non solo) e che solo un giornalista italiano sarebbe stato in grado di scoprire. Ecco, a riprova di quanto detto, le mie testuali parole: «Inoltre, condividiamo quanto Patruno, don Di Sorco e altri autori del dibattito hanno espresso: ovvero, il fatto che se veramente Ratzinger avesse fatto quello che dice Cionci, avrebbe ingannato l’intero orbe cattolico (e non solo), sarebbe sì un genio, ma del male, non del bene. Tutto il mondo caparbiamente ratzingeriano nemmeno si rende conto di questa palese evidenza» (p. 238). Dispiace questo uso non corretto delle mie parole.
Siccome credo che il Codice Ratzinger non risponda a verità, non si può affermare che io ritenga essere stato Joseph Ratzinger un genio del male. Lo riterrei tale se il Codice Ratzinger fosse vero, ma non credo sia vero. Ritengo di contro, come spiegato nel libro, che sia stato influenzato nella sua scelta dalla sua visione teologico-filosofica dialettica, di radice tanto hegeliana per un verso che ranheriana per un altro, questo sì. Ma dal mio libro non si evince in alcun modo che io lo possa ritenere un “genio del male”. Basta leggere il libro per verificare.
Punto secondo
Veniamo ora al punto dolente del ragionamento del professor de Mattei, che pone in dubbio il mio diritto ad andare a Messa una cum: sembra quindi che il professore avalli nei miei riguardi una sorta di accusa di “scisma”, con tutte le conseguenze che ne seguono.
Mi sembra che il professor de Mattei non abbia colto il senso profondo e ultimo del mio ragionamento: ovvero, l’impossibilità oggettiva di possedere una certezza assoluta sulla situazione dell’autorità nella Chiesa odierna. Quasi tutto il libro è in fondo la dimostrazione di questo assunto (a mia opinione, ciò è inconfutabile, per altri ovviamente non è così, ma certamente non la si può liquidare con le illazioni sulla altrui coscienza personale), basata esclusivamente sulla evidente ricostruzione dei fatti. Tutta la IV parte del libro dimostra tale impossibilità e comunque dimostra che questo è il mio pensiero: basta leggere il libro per verificare.
Ora, se ritengo impossibile avere certezza, è evidente che non ho certezza. Siamo ovvero nel dubbio, sebbene, come ho scritto, possa ritenere “fortemente probabile” una delle due soluzioni per le tante ragioni esposte nel libro. Ma “fortemente probabile” non corrisponde a certezza assoluta, né nella lingua italiana né nella teologia. Se non vi è certezza assoluta, non vi è “piena avvertenza” dell’eventuale peccato, e quindi non v’è peccato (perché lo scisma è un peccato), in quanto manca il deliberato consenso (ovvero, nella fattispecie, la volontà stessa di essere “scismatico”). Né si può parlare di “spirito scismatico”, per il semplice motivo che non sto ponendo questi problemi – quasi fossi un pazzo scatenato – sotto il pontificato di Pio XII o prima ancora, né li sto ponendo per primo (ma sono in una lunga schiera…), ma nella quotidiana tragedia assoluta, evidente agli occhi di tutti coloro che non sono ciechi o mentitori, della Chiesa attuale. E la riprova è che, oggi, stanno arrivando finalmente anche le denunce di tanti prelati, cardinali compresi.
Nel libro, a p. 251, dopo aver descritto tutte le possibili motivazioni – oggettive in sé o esposte da altri autori o dedotte dall’insegnamento perenne della teologia (come il problema del papa dubius, solo per fare un esempio possibile fra i tanti che trattiamo) – che spingono a dubitare sulla legittimità della Sede attuale, scrivo testualmente: «Perché tutto quanto descritto in questo libro non dipende da noi, non spetta a noi alcuna decisione in merito alla questione dell’autorità nella Chiesa: al massimo ragionarci sopra pubblicamente, fare video o articoli o libri, allo scopo di porre il problema alle legittime gerarchie ecclesiastiche e aprire gli occhi a chi ricerca la verità senza ancora trovarla, ma niente più di questo. Di contro, possiamo solo “sospendere il giudizio” e attendere che i responsabili agiscano o i fatti dipanino la situazione o Dio stesso intervenga. Fino a quel momento, noi siamo semplici e fedeli figli della Chiesa nel momento storico e nelle condizioni in cui il Signore ci ha voluto far vivere. E questo è esattamente quanto io, Massimo Viglione, semplice laico cattolico, faccio e a questo mi sono attenuto con questo libro».
Anche questa volta, quanto scrive il professor de Mattei («E’ vero che egli non considera questa sua convinzione come “una oggettiva certezza assoluta”, ma se è una certezza morale, sia pure soggettiva, egli dovrebbe astenersi dall’assistere alla Messa una cum un Papa che non è tale»), non risponde al vero. Sia perché io non parlo di “certezza morale” bensì di un’opinione personale che ritengo “fortemente probabile” (e, ancora una volta, non è la stessa cosa, come è evidente oggettivamente), sia perché – lo ribadisco – la struttura che tiene su il mio ragionamento è la mancanza di certezza, e sarebbe una contraddizione in termini (questa sì!) avere quella “certezza morale” che de Mattei mi attribuisce forzosamente e che invece non ho.
Faccio anche notare che, tra gli autori, riporto, dichiarando di condividerlo in pieno, quanto affermato da un sacerdote che purtroppo ha voluto restare anonimo in un suo articolo pubblicato sul blog di Aldo Maria Valli Duc in altum [qui], il quale afferma testualmente che, dinanzi alla folle situazione odierna, si può solo: «a) rimanere saldamente nella Chiesa cattolica, per mezzo di una fedeltà effettiva a ciò che essa ha sempre insegnato; b) “accontentarsi” di eventuali iniziative ponderate e argomentate, prese da cardinali e vescovi autorevoli; c) assumere, nel segreto della propria coscienza, una posizione sempre più chiara e decisa contro un certo magistero folle di Bergoglio. (…) E chi sono io per impedire valutazioni soggettive di questo tipo, specie quando sono frutto di un discernimento lungo e sofferto sulla situazione generale della Chiesa e sul comportamento pertinace di coloro che la guidano? (…) Un giudizio di questo genere però, anche se comprensibile, ha un carattere totalmente privato e soggettivo; e quindi non può essere considerato come ufficiale e definitivo, né può essere imposto agli altri in modo imperativo. La completa chiarificazione del “problema-Bergoglio” non spetta alla base della Chiesa, ma al suo vertice più alto; e ciò si potrà realizzare nei tempi e nei modi che solamente la Divina Provvidenza è in grado di decidere e di attuare», facendo capire che è bene che la parabola decrescente di Bergoglio giunga fino al termine, proprio perché sia chiaro a tutti l’abisso in cui è precipitato e sta facendo precipitare la Chiesa.
Ecco, questo è esattamente ciò io faccio.
Mi sembra che il professor de Mattei non abbia colto il senso profondo e ultimo del mio ragionamento: ovvero, l’impossibilità oggettiva di possedere una certezza assoluta sulla situazione dell’autorità nella Chiesa odierna. Quasi tutto il libro è in fondo la dimostrazione di questo assunto (a mia opinione, ciò è inconfutabile, per altri ovviamente non è così, ma certamente non la si può liquidare con le illazioni sulla altrui coscienza personale), basata esclusivamente sulla evidente ricostruzione dei fatti. Tutta la IV parte del libro dimostra tale impossibilità e comunque dimostra che questo è il mio pensiero: basta leggere il libro per verificare.
Ora, se ritengo impossibile avere certezza, è evidente che non ho certezza. Siamo ovvero nel dubbio, sebbene, come ho scritto, possa ritenere “fortemente probabile” una delle due soluzioni per le tante ragioni esposte nel libro. Ma “fortemente probabile” non corrisponde a certezza assoluta, né nella lingua italiana né nella teologia. Se non vi è certezza assoluta, non vi è “piena avvertenza” dell’eventuale peccato, e quindi non v’è peccato (perché lo scisma è un peccato), in quanto manca il deliberato consenso (ovvero, nella fattispecie, la volontà stessa di essere “scismatico”). Né si può parlare di “spirito scismatico”, per il semplice motivo che non sto ponendo questi problemi – quasi fossi un pazzo scatenato – sotto il pontificato di Pio XII o prima ancora, né li sto ponendo per primo (ma sono in una lunga schiera…), ma nella quotidiana tragedia assoluta, evidente agli occhi di tutti coloro che non sono ciechi o mentitori, della Chiesa attuale. E la riprova è che, oggi, stanno arrivando finalmente anche le denunce di tanti prelati, cardinali compresi.
Nel libro, a p. 251, dopo aver descritto tutte le possibili motivazioni – oggettive in sé o esposte da altri autori o dedotte dall’insegnamento perenne della teologia (come il problema del papa dubius, solo per fare un esempio possibile fra i tanti che trattiamo) – che spingono a dubitare sulla legittimità della Sede attuale, scrivo testualmente: «Perché tutto quanto descritto in questo libro non dipende da noi, non spetta a noi alcuna decisione in merito alla questione dell’autorità nella Chiesa: al massimo ragionarci sopra pubblicamente, fare video o articoli o libri, allo scopo di porre il problema alle legittime gerarchie ecclesiastiche e aprire gli occhi a chi ricerca la verità senza ancora trovarla, ma niente più di questo. Di contro, possiamo solo “sospendere il giudizio” e attendere che i responsabili agiscano o i fatti dipanino la situazione o Dio stesso intervenga. Fino a quel momento, noi siamo semplici e fedeli figli della Chiesa nel momento storico e nelle condizioni in cui il Signore ci ha voluto far vivere. E questo è esattamente quanto io, Massimo Viglione, semplice laico cattolico, faccio e a questo mi sono attenuto con questo libro».
Anche questa volta, quanto scrive il professor de Mattei («E’ vero che egli non considera questa sua convinzione come “una oggettiva certezza assoluta”, ma se è una certezza morale, sia pure soggettiva, egli dovrebbe astenersi dall’assistere alla Messa una cum un Papa che non è tale»), non risponde al vero. Sia perché io non parlo di “certezza morale” bensì di un’opinione personale che ritengo “fortemente probabile” (e, ancora una volta, non è la stessa cosa, come è evidente oggettivamente), sia perché – lo ribadisco – la struttura che tiene su il mio ragionamento è la mancanza di certezza, e sarebbe una contraddizione in termini (questa sì!) avere quella “certezza morale” che de Mattei mi attribuisce forzosamente e che invece non ho.
Faccio anche notare che, tra gli autori, riporto, dichiarando di condividerlo in pieno, quanto affermato da un sacerdote che purtroppo ha voluto restare anonimo in un suo articolo pubblicato sul blog di Aldo Maria Valli Duc in altum [qui], il quale afferma testualmente che, dinanzi alla folle situazione odierna, si può solo: «a) rimanere saldamente nella Chiesa cattolica, per mezzo di una fedeltà effettiva a ciò che essa ha sempre insegnato; b) “accontentarsi” di eventuali iniziative ponderate e argomentate, prese da cardinali e vescovi autorevoli; c) assumere, nel segreto della propria coscienza, una posizione sempre più chiara e decisa contro un certo magistero folle di Bergoglio. (…) E chi sono io per impedire valutazioni soggettive di questo tipo, specie quando sono frutto di un discernimento lungo e sofferto sulla situazione generale della Chiesa e sul comportamento pertinace di coloro che la guidano? (…) Un giudizio di questo genere però, anche se comprensibile, ha un carattere totalmente privato e soggettivo; e quindi non può essere considerato come ufficiale e definitivo, né può essere imposto agli altri in modo imperativo. La completa chiarificazione del “problema-Bergoglio” non spetta alla base della Chiesa, ma al suo vertice più alto; e ciò si potrà realizzare nei tempi e nei modi che solamente la Divina Provvidenza è in grado di decidere e di attuare», facendo capire che è bene che la parabola decrescente di Bergoglio giunga fino al termine, proprio perché sia chiaro a tutti l’abisso in cui è precipitato e sta facendo precipitare la Chiesa.
Ecco, questo è esattamente ciò io faccio.
Casomai, si può dire che è proprio il professor de Mattei, il quale in passato aveva tra i primi, fin dal 2014, avanzato dubbi sulla legittimità della rinuncia di Benedetto e proprio della stessa natura di quelli da me avanzati (inaccettabilità della scissione dialettica “hegelian-ranheriana” del papato) [qui], poi ribaditi ancora nel 2020 [qui], che dà per scontato ciò che invece è il punto che necessita di verifica e chiarimento. Perché non ha mai dato una spiegazione risolutiva di tali dubbi allora espressi, e assume come certezza assoluta – ovvero che non richiede dimostrazione alcuna, quasi fossimo sotto Pio XII o Innocenzo III – che Francesco è papa, impartendo continue e ormai pedisseque e immancabili lezioni di galateo comportamentale sulla devozione formale che si deve al papa (lo fa ancora in questa sua recensione per l’ennesima volta), come se questo punto fosse il vero cuore di tutta la tragedia attuale della Chiesa Cattolica. Ed è inutile dire come tale pedissequo atteggiamento formale favorisca il sospetto di una volontà apoditticamente “normalizzatrice”, in pieno stile conservatore, anche per quanto concerne la tragedia attuale della Chiesa Cattolica.
Terzo punto
De Mattei poi mi avvicina ai “sedeprivazionisti” (la cosa, per chi conosce le vicende del mondo tradizionalista italiano, è quasi comica in sé, visto il disprezzo di cui godo in quegli ambienti), anche se poi correttamente riporta le mie parole di pieno distacco dalle loro posizioni. Pertanto, anche in questo caso, ho già risposto con il mio libro. Tengo solo a precisare che quando egli scrive che io dovrei ritenere invalide le consacrazioni riconducibili a Jorge Mario Bergoglio, esprime una sua opinione personale non sorretta dai fatti. In realtà io ho chiarito che, nell’evenienza che Bergoglio non sia papa legittimo (evenienza che ritengo fortemente probabile, ma non assolutamente certa) solo la Chiesa potrà in futuro pronunciarsi definitivamente, anche in base al principio della sanazione in radice. Pertanto, è una questione rispetto alla quale non spetta a me avere una posizione apodittica.
Terzo punto
De Mattei poi mi avvicina ai “sedeprivazionisti” (la cosa, per chi conosce le vicende del mondo tradizionalista italiano, è quasi comica in sé, visto il disprezzo di cui godo in quegli ambienti), anche se poi correttamente riporta le mie parole di pieno distacco dalle loro posizioni. Pertanto, anche in questo caso, ho già risposto con il mio libro. Tengo solo a precisare che quando egli scrive che io dovrei ritenere invalide le consacrazioni riconducibili a Jorge Mario Bergoglio, esprime una sua opinione personale non sorretta dai fatti. In realtà io ho chiarito che, nell’evenienza che Bergoglio non sia papa legittimo (evenienza che ritengo fortemente probabile, ma non assolutamente certa) solo la Chiesa potrà in futuro pronunciarsi definitivamente, anche in base al principio della sanazione in radice. Pertanto, è una questione rispetto alla quale non spetta a me avere una posizione apodittica.
Quarto punto
Scrive testualmente il professor de Mattei: «L’unica posizione che il prof. Viglione nel suo libro non critica, ma anzi sembra fare propria, è quella dell’arcivescovo Carlo Maria Viganò». E questa, duole dirlo, è un’affermazione completamente e gravemente falsa e non si comprende proprio come possa sostenerla. Chiunque ha letto o leggerà il libro può verificare direttamente la mia ultima sentenza. Ad esempio, io elogio il sacerdote anonimo a cui prima ho fatto cenno; elogio il canonista Michielan e particolarmente il canonista Patruno, del quale condivido pienamente il ragionamento, non condividendo affatto invece il titolo del libro scelto dalle Edizioni Fede & Cultura (Non era più lui, riferito Benedetto XVI, intesa quindi come apodittica affermazione di certezza sul fatto che Francesco sia papa), che non rispecchia fedelmente quanto affermato dai canonisti. Forse di Michielan sì, sebbene anch’egli qualche problema canonico lo ponga, ma specialmente di Patruno, il quale ha confermato i suoi dubbi in merito in un’intervista con Francesco Toscano [qui].
È interessante notare al riguardo che il professor de Mattei, che spesso elogia i due canonisti del libro di Fede & Cultura come esempio di professionalità (e ha ragione, sia chiaro), non si sia però per nulla avveduto del fatto che almeno Patruno è in netta antitesi con le sue opinioni “legittimiste”. Tornando al punto: ho elogiato l’impostazione del professor Radaelli; ho condiviso fin dall’inizio le posizioni del teologo Arnaldo da Silveira sulla questione del papa eretico; ho anche apprezzato il “gruppo dei nove” con il loro “sedemenefreghismo” (pur con qualche doverosa specifica in merito). E, in fondo, almeno in linea generale, anche quanto affermato da Socci prima maniera nel suo primo libro Non è Francesco.
Ma anche quando sono giunto a una conclusione differente, come nel caso del libro di don Daniele Di Sorco (FSSPX) Parole chiare sulla Chiesa, ho scritto testualmente di condividere ogni sua affermazione riguardo lo “smontamento” (mi si passi il brutto termine) delle varie ipotesi di Cionci (pp. 240 e segg.), sebbene poi la mia conclusione sia differente da quella della certezza assoluta espressa dal sacerdote sulla legittimità di papa Francesco.
E anche quando ho criticato alcune affermazioni o posizioni di alcuni autori e teologi, ho comunque messo in risalto anche l’identità di vedute su altri punti. Pertanto, è completamente falso affermare che io abbia condiviso solo la posizione di monsignor Viganò sul vizio di consenso, sulla quale peraltro specifico che, pur ritenendola assolutamente vera in sé, dichiaro che non è di per sé foriera di certezza assoluta sulla vacanza della Sede (come per altro, saggiamente, lo stesso arcivescovo chiarisce ponendola come ipotesi di valutazione ai suoi confratelli e ai cardinali). E non è possibile non notare, nelle parole di de Mattei, una malcelata forzatura nel volermi far apparire come aderente al mondo della “Resistenza” (visto anche il pubblico e costantemente ribadito contrasto – e usiamo un termine “moderato” – che egli nutre verso monsignor Viganò), prima affermando una cosa nettamente falsa in sé come appena dimostrato (l’unico che avrei elogiato sarebbe monsignor Viganò), poi parlando immediatamente dopo dei presunti legami di quest’ultimo con quel mondo.
Insomma, potrei errare, ma non posso nascondere come appaia ai miei occhi alquanto evidente il tentativo del professor de Mattei di farmi a tutti i costi passare per “scismatico” o qualcosa del genere. Almeno secondo i suoi criteri: prima dandomi certezze morali che non ho e che mi toglierebbero il diritto di partecipazione alla Messa una cum, poi collegandomi con i sedeprivazionisti, infine con la “Resistenza” (poi si sono esaurite le possibilità con cui collegarmi). Io non esprimo alcun giudizio in merito alla eventuale “scismaticitià” di questi gruppi di prelati e fedeli: ma dico semplicemente che non appartengo né agli uni né agli altri. E nessuno al mondo può affermare il contrario. Sono sempre andato, in tutta la mia vita, alla Messa una cum, e questo intendo continuare a fare, almeno finché non si avrà certezza assoluta della vacanza della Sede. Inoltre, ho dedicato un paragrafo specificamente a questo problema, denunciando il male compiuto da chi invita a disertare le Messe una cum e dando le ragioni per le quali invece è lecito parteciparvi. Quindi, anche in questo caso, la verità è l’esatto contrario di quanto affermato dal professor de Mattei.
Quinto punto
Infine, una breve puntualizzazione. Il professor de Mattei inizia la sua disamina del mio libro scrivendo: «Pur non essendo rivolto agli specialisti…». Il mio libro in effetti non è rivolto agli specialisti (suppongo che per “specialisti” de Mattei intenda teologi e canonisti), ma al contempo non è non rivolto agli specialisti, nel senso che è rivolto a tutti. Certamente io l’ho condotto con metodologia storica (e questo il professore lo riconosce), e al contempo non sono un teologo di professione e tanto meno un canonista: ma ritengo che il libro, proprio per la ricostruzione storica dell’intera questione (compreso il dibattito plurisecolare sul papa eretico) e per il fatto di aver dato la parola direttamente agli autori, possa essere utile strumento anche per gli “specialisti”.
Certamente, è utile per tutti coloro che, privi di prevenzioni di natura sia sentimentale che teologica, o di accecamenti per cause di convenienza personale, sono sinceramente desiderosi di arrivare a comprendere la realtà delle cose per quella che è, anche se potrà non piacere.
Quanto esposto nel libro fornisce la ricostruzione del grande mosaico, conditio sine qua non per la retta comprensione dell’intera questione. E, per quel che concerne le mie posizioni sulle varie delicate e complicate problematiche trattate, invito alla lettura diretta delle mie parole. Così che ognuno possa avere esatta contezza di quanto da me scritto.
È interessante notare al riguardo che il professor de Mattei, che spesso elogia i due canonisti del libro di Fede & Cultura come esempio di professionalità (e ha ragione, sia chiaro), non si sia però per nulla avveduto del fatto che almeno Patruno è in netta antitesi con le sue opinioni “legittimiste”. Tornando al punto: ho elogiato l’impostazione del professor Radaelli; ho condiviso fin dall’inizio le posizioni del teologo Arnaldo da Silveira sulla questione del papa eretico; ho anche apprezzato il “gruppo dei nove” con il loro “sedemenefreghismo” (pur con qualche doverosa specifica in merito). E, in fondo, almeno in linea generale, anche quanto affermato da Socci prima maniera nel suo primo libro Non è Francesco.
Ma anche quando sono giunto a una conclusione differente, come nel caso del libro di don Daniele Di Sorco (FSSPX) Parole chiare sulla Chiesa, ho scritto testualmente di condividere ogni sua affermazione riguardo lo “smontamento” (mi si passi il brutto termine) delle varie ipotesi di Cionci (pp. 240 e segg.), sebbene poi la mia conclusione sia differente da quella della certezza assoluta espressa dal sacerdote sulla legittimità di papa Francesco.
E anche quando ho criticato alcune affermazioni o posizioni di alcuni autori e teologi, ho comunque messo in risalto anche l’identità di vedute su altri punti. Pertanto, è completamente falso affermare che io abbia condiviso solo la posizione di monsignor Viganò sul vizio di consenso, sulla quale peraltro specifico che, pur ritenendola assolutamente vera in sé, dichiaro che non è di per sé foriera di certezza assoluta sulla vacanza della Sede (come per altro, saggiamente, lo stesso arcivescovo chiarisce ponendola come ipotesi di valutazione ai suoi confratelli e ai cardinali). E non è possibile non notare, nelle parole di de Mattei, una malcelata forzatura nel volermi far apparire come aderente al mondo della “Resistenza” (visto anche il pubblico e costantemente ribadito contrasto – e usiamo un termine “moderato” – che egli nutre verso monsignor Viganò), prima affermando una cosa nettamente falsa in sé come appena dimostrato (l’unico che avrei elogiato sarebbe monsignor Viganò), poi parlando immediatamente dopo dei presunti legami di quest’ultimo con quel mondo.
Insomma, potrei errare, ma non posso nascondere come appaia ai miei occhi alquanto evidente il tentativo del professor de Mattei di farmi a tutti i costi passare per “scismatico” o qualcosa del genere. Almeno secondo i suoi criteri: prima dandomi certezze morali che non ho e che mi toglierebbero il diritto di partecipazione alla Messa una cum, poi collegandomi con i sedeprivazionisti, infine con la “Resistenza” (poi si sono esaurite le possibilità con cui collegarmi). Io non esprimo alcun giudizio in merito alla eventuale “scismaticitià” di questi gruppi di prelati e fedeli: ma dico semplicemente che non appartengo né agli uni né agli altri. E nessuno al mondo può affermare il contrario. Sono sempre andato, in tutta la mia vita, alla Messa una cum, e questo intendo continuare a fare, almeno finché non si avrà certezza assoluta della vacanza della Sede. Inoltre, ho dedicato un paragrafo specificamente a questo problema, denunciando il male compiuto da chi invita a disertare le Messe una cum e dando le ragioni per le quali invece è lecito parteciparvi. Quindi, anche in questo caso, la verità è l’esatto contrario di quanto affermato dal professor de Mattei.
Quinto punto
Infine, una breve puntualizzazione. Il professor de Mattei inizia la sua disamina del mio libro scrivendo: «Pur non essendo rivolto agli specialisti…». Il mio libro in effetti non è rivolto agli specialisti (suppongo che per “specialisti” de Mattei intenda teologi e canonisti), ma al contempo non è non rivolto agli specialisti, nel senso che è rivolto a tutti. Certamente io l’ho condotto con metodologia storica (e questo il professore lo riconosce), e al contempo non sono un teologo di professione e tanto meno un canonista: ma ritengo che il libro, proprio per la ricostruzione storica dell’intera questione (compreso il dibattito plurisecolare sul papa eretico) e per il fatto di aver dato la parola direttamente agli autori, possa essere utile strumento anche per gli “specialisti”.
Certamente, è utile per tutti coloro che, privi di prevenzioni di natura sia sentimentale che teologica, o di accecamenti per cause di convenienza personale, sono sinceramente desiderosi di arrivare a comprendere la realtà delle cose per quella che è, anche se potrà non piacere.
Quanto esposto nel libro fornisce la ricostruzione del grande mosaico, conditio sine qua non per la retta comprensione dell’intera questione. E, per quel che concerne le mie posizioni sulle varie delicate e complicate problematiche trattate, invito alla lettura diretta delle mie parole. Così che ognuno possa avere esatta contezza di quanto da me scritto.
Nessuno ha amato la Beatissima Vergine Maria più del suo Divin Figlio.
Chiunque abbia riconosciuto e profondamente contemplato l’amore inesprimibile di Maria verso di lui, desidera rispondere a questo amore con il più grande amore filiale possibile.
Guardiamo con ammirazione e forse un po’ di invidia la devozione dei grandi santi che hanno fatto e sofferto così tanto per Maria, e vorremmo diventare almeno una miniatura di un San Bernardo, di un San Luigi Grignion de Montfort, o di un Massimiliano Kolbe.
È difficile immaginare che ci potrebbe essere un altro modo per amare ancora di più Maria.
Tuttavia, sappiamo che nessuno ha amato Maria più di suo Figlio. L’amava con tutta la perfezione della sua natura umana e divina. Ha fatto di più per lei che per tutte le altre creature messe insieme, come dimostrano gli straordinari privilegi che Dio non ha mai concesso ad un’altra creatura: l’Immacolata Concezione, la Pienezza della grazia, la Perpetua Verginità, la Divina Maternità, la Maternità spirituale come Corredentrice e Mediatrice di tutte le grazie, e infine l’Assunzione in Cielo con corpo e anima. No, nessuno amava Maria più di Gesù stesso.
Quindi ecco il modo di amare Maria più degli altri Santi. In effetti, abbiamo ricevuto l’incommensurabile grazia di essere pienamente uniti a Cristo tramite la grazia santificante, proprio come i membri del corpo sono uniti alla testa e formano un tutt’uno con lui. Quindi, la nostra vita e la Vita di Cristo sono una cosa sola. La pienezza di questa vita è nella testa, in Cristo, e da questo Cristo, fluisce in noi, in ciascuno dei membri, dall’azione dello Spirito Santo, anima di questo corpo mistico.
Questa vita soprannaturale che è nostra, è la vita di Cristo stesso, poiché i rami partecipano alla vita della vite, come le membra partecipano alla vita di tutto il Corpo. Quindi quando soffriamo, preghiamo, lavoriamo, amiamo, ecc., uniti alla vita di Cristo, allora è Cristo che continua la sua sofferenza, la sua preghiera, il suo lavoro, il suo stesso amore, ecc. in noi.
Pertanto, il nostro amore per Maria è molto più di una lontana imitazione dell’amore filiale di Gesù verso la sua Madre celeste. Proprio come la nostra vita soprannaturale è una partecipazione, una continuazione e, in un certo senso, l’estensione della vita di Cristo, così il nostro amore per Maria è una partecipazione, una continuazione e un’estensione dell’amore di Cristo per Maria. Quindi se amiamo Maria, non è tanto noi che la amiamo, ma Cristo, la “nostra vita”, che ama Maria in noi, attraverso di noi e con noi!
È l’amore e la devozione più elevata possibile per Maria, che contiene in sé tutta la devozione di angeli e santi.
Quindi, quando Cristo ci dice che ci ha dato un esempio e ci ha chiesto di fare come lui, allora non dobbiamo solo imitarlo, ma dobbiamo onorare, glorificare e amare Maria unita a lui.
Quale gioia incommensurabile per un figlio mariano poter “amare tanto Maria” e darle così la gioia più grande! Ama Maria con l’amore di Gesù.
Per questo solo motivo, il “Mihi vivere Christus est” deve essere la grande realtà della nostra vita!
(fonte FSSPX)
sabato 3 febbraio 2024
San Biagio, il Vescovo martire che protegge dal mal di gola e non solo
Le notizie storiche di san Biagio sono molto scarse. Si sa che era di origine armena e fu eletto vescovo di Sebaste. Infierendo la persecuzione di Licinio, Biagio ritenne prudente lasciare la città e rifugiarsi in una grotta nascosta nella boscaglia, ma l’andirivieni delle persone che lo cercavano rese ben presto noto a tutti il suo nascondiglio. Condotto in città, per ordine del governatore Agricola, fu imprigionato, ma anche nella prigione riceveva e sanava molti ammalati. Un giorno si recò da lui una madre il cui figlio stava morendo soffocato, per aver ingoiato una spina di pesce: Biagio lo benedisse e lo risanò immediatamente.
La buona mamma, per ringraziarlo, gli offrì una candela per illuminare di notte la cella e un po’ di cibo. Da qui nacque la tradizione di benedire, con due ceri incrociati, la gola dei fedeli nel giorno della sua festa. Questo episodio valse a san Biagio la qualifica di protettore di tutti i mali della gola. Si racconta pure del suo amore per gli animali, che anche loro per le sue mani erano curati e guariti. Per questo è venerato come patrono dei veterinari. Il culto di san Biagio si è diffuso particolarmente in Armenia, ma la fama di questo santo ha raggiunto anche l’occidente, entrando nella tradizione e nella pietà popolare. Il suo martirio avvenne nel 320 durante la persecuzione di Diocleziano.
Lo stesso giorno si ricorda sant’Ansgario (Oscar) . Nacque nell’801 a Corbie nella Francia settentrionale e divenne monaco nel monastero benedettino di quella città. Personalità molto dotata, ancora giovanissimo fu inviato a evangelizzare i popoli della Danimarca e della Svezia.Fu eletto vescovo della chiesa di Amburgo, con la missione di legato pontificio per le nazioni del Nord. Fu pastore pieno di sollecitudine, soprattutto nei confronti dei poveri e degli schiavi. Alle sue cure fu affidata anche la diocesi di Brema. Morì il 3 febbraio 865 ed è invocato come patrono dei paesi del Nord.
Si legge un compendio della vita del santo:
«Nel tempo della persecuzione di Licinio, imperatore perfido, san Biagio fuggì, ed abitò nel monte Ardeni o Argias; e quando vi abitava il santo, tutte le bestie dei boschi venivano a lui ed erano mansuete con lui, egli le accarezzava; egli era di professione medico, ma con l'aiuto del Signore sanava tutte le infermità e degli uomini e delle bestie ma non con medicine, ma con il nome di Cristo. E se qualcuno inghiottiva un osso, o una spina, e questa si metteva di traverso nella gola di lui, il santo con la preghiera l'estraeva, e sin da adesso ciò opera; se alcuno inghiotte un osso, o spina, col solo ricordare il nome di S. Biagio subito guarisce dal dolore. Una povera donna aveva un porco, il quale fu rapito da un lupo; venne la donna dal Vescovo, e con pianto gli fece capire come il lupo aveva rapito il suo porco; allora il Santo minacciò il lupo, e questo rilasciò il porco. Fu da Agricolao accusato il Vescovo, il quale mandò soldati, che lo condussero avanti ad esso; il giudice gli fece molte interrogazioni, ed egli in tutta libertà confessò, che Cristo era Dio, e maledisse gli idoli, e i loro adoratori, e però subito fu messo in prigione. Sentì la vedova, che il Vescovo era stato messo in prigione, uccise il porco, cucinò la testa e i piedi d'esso, e li portò al Vescovo con altri cibi e legumi: mangiò il Santo, e benedisse la donna, e l'ammonì, che dopo la sua morte ciò facesse ogni anno nel giorno della sua commemorazione, e chi ciò facesse in memoria di lui sarebbe la sua casa ricolma d'ogni bene. E dopo alcuni giorni levarono il santo dalla carcere, e lo portarono davanti al giudice, e confessò la sua prima confessione, e chiamò gli idoli demoni, e gli adoratori degli idoli chiamò adoratori del demonio. Si sdegnò il giudice: legarono il Santo ad un legno, e cominciarono coi pettini di ferro a stracciargli la carne, e appresso lo deposero e portarono in carcere. Sette donne lo seguirono, le quali col sangue del Santo ungevano il loro cuore e volto: i custodi delle carceri presero le donne, e le portarono al giudice, e le sante donne confessarono, che Cristo era Dio; furono rilasciate; ma le donne non contente di ciò andarono dagli idoli, e sputarono esse in faccia, e racchiusi tutti in un sacco, e quello legato fu da esse gettato in un lago. Ciò fatto tornarono al giudice dicendogli: «Vedi la forza dei tuoi dei, se possono uscire dal profondo lago.» Comandò il giudice, che si preparasse il fuoco, e piombo liquefatto, spade, pettini di ferro, ed altri tormenti; a dall'altra parte fece porre tele di seta, ed altri ornamenti donneschi d'oro, d'argento e disse alle donne: «Scegliete quel che volete.» Le donne pure gettarono le tele nel fuoco, e sputarono sopra gli ornamenti. Si sdegnò il giudice, e comandò che si apprendessero, e con pettini di ferro fece dilacerare il corpo, e poi le gettarono nel fuoco, da cui uscirono illese, e dopo molti tormenti tagliarono ad esse la testa, e così consumarono il martirio. Ma il Santo Biagio lo gettarono nel fiume, ed il Santo si sedette sopra l'acqua quasi sopra un ponte. Entrarono nel fiume 79 soldati per estrarre il santo, e tutti s'affogarono, ed il Santo uscì senza danno: lo presero per tagliargli la testa; e quando arrivarono a quel luogo, orò lunga orazione e domandò a Dio, che se alcuno inghiotte osso, o spina, che gli si attraversi la gola, e senta dolore, e preghi Dio col nominar lui, subito sia libero dal pericolo. Allora calò sopra di lui una nuvola, e si sentì da quella una voce che diceva: «Saranno adempiute le tue domande, o carissimo Biagio: tu vieni, e riposa nella gloria incomprensibile che ti ho preparato per le tue fatiche.» Appresso tagliarono la testa al Vescovo Biagio nella città di Sebaste. Uno chiamato Alessio prese il corpo del Santo Biagio Vescovo, e lo ravvolse in sindone monda, e lo seppellì sotto il muro della città, dove si fanno molti miracoli a gloria del nostro Dio Gesù.»
La più antica citazione scritta sul santo è contenuta nei Medicinales di Aezio di Amida, vissuto nel VI secolo. Riguardo ai mali di gola, nella traduzione latina di Giano Corsaro dell'opera del medico greco, si legge:
«Aliud. Ad eductionem eorum, quae in tonsillas devorata sunt. Statim te ad aegrum desidentem converte, ipsumque tibi attendere jube, ac dic: egredere os, si tamen os, aut festuca, aut quid quid tandem existit: quemadmodum Iesus Christus ex sepulchre Lazarum eduxit, o quemadmodum Jonam ex ceto. Atque adprehendo aegri gutture dic: Blasius martyr o servus Christi dicit, aut adscende, aut descende.»
«Se la spina o l'osso non volesse uscire fuori, volgiti all'ammalato e digli «Esci fuori, osso, se pure sei osso, o checché sii: esci come Lazzaro alla voce di Cristo uscì dal sepolcro, e Giona dal ventre della balena.» Ovvero fatto sull'ammalato il segno della croce, puoi proferire le parole che Biagio martire e servo di Cristo usava dire in simili casi «O ascendi o discendi».»